La «Napoli velata» di Enzo Moscato

Da sinistra, Cristina Donadio e Lalla Esposito in «Festa al celeste e nubile santuario» (le foto che illustrano questo articolo sono di Pino Miraglia)

Da sinistra, Cristina Donadio e Lalla Esposito in «Festa al celeste e nubile santuario»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Pino Miraglia)

NAPOLI – Riporto il commento a «Festa al celeste e nubile santuario» pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Sarà stata la suggestione esercitata dal luogo, il San Ferdinando, ma resta il fatto che – mentre vedevo «Festa al celeste e nubile santuario», il testo di Enzo Moscato dell’83 adesso riproposto, per la regia dell’autore, dallo Stabile di Napoli e da Casa del Contemporaneo – mi è subito balenata in mente una parafrasi dell’ultimo verso («Chi more doppo, more overamente») della poesia «’A sagliuta» di Eduardo: «Chi vede dopo, vede veramente». Ed ecco che cosa voglio dire.
Come sappiamo (o dovremmo sapere), il teatro è un’arte eminentemente sociale, che, cioè, riflette direttamente lo stato – morale, culturale, economico, politico – della società in cui si manifesta ed opera. E io, che ho visto l’allestimento odierno di «Festa al celeste e nubile santuario» dopo averne visto i due precedenti, quello dell’esordio, nel 1984, e quello dell’unica ripresa, nel 1988, posso testimoniare che la commedia di Moscato costituisce una vera e propria cartina al tornasole rispetto ai mutamenti che nei trentasei anni della sua storia si son verificati a Napoli. Ma prima di arrivare a questi, sarà bene riassumere i contenuti del testo che stiamo considerando.
In un basso dei Quartieri Spagnoli distillano la loro misera quotidianità tre sorelle zitelle, Elisabetta, Annina e Maria. E la sola via di fuga che hanno trovato consiste nello strenuo rifugiarsi in un irriducibile delirio mistico, fondato sul culto della Vergine. Del resto, lo annunciano già i loro nomi, che sono, ovviamente, quelli della Madonna (Maria), di sua madre (Anna) e di sua zia (Elisabetta). E tanto delirio si traduce – sul filo del barocco degradato che rappresenta la splendida «sostanza» dello stile di Moscato – nel continuo annegarsi della Parola in un’isteria agganciata, senza distinzione, agl’inni sacri, ai proverbi e alle frasi fatte. Finché, a spezzare quel melmoso equilibrio, interviene Toritore, un giovane scemo che diventa l’amante prima di Annina e poi di Maria.
Piuttosto evidente, quindi, è che siamo di fronte a una dimensione mentale sconfitta dall’improvviso irrompere di una presenza carnale. E non possiamo, di conseguenza, non pensare per l’ennesima volta a Pirandello e, in specie, a «Enrico IV». A partire dalla decisiva battuta che appunto Enrico IV rivolge a colui che finge di scambiare per l’abate Ugo di Cluny: «Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese, quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti così sfuggita da voi».
Il tema è il disperato tentativo d’imprigionare la vita – ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per giunta slegati l’uno dall’altro – in una Forma unica, per sempre data e per sempre riconoscibile. Per l’Enrico IV di Pirandello quella Forma è il ruolo dell’imperatore medievale, per le tre sorelle di Moscato è il culto della Vergine corredato degl’inni sacri, dei proverbi e delle frasi fatte. E se la «sorpresa» è, per l’Enrico IV di Pirandello, l’uccisione da parte sua di Tito Belcredi, per Elisabetta, Annina e Maria è «’o carcinoma, ‘o carcinoma» (sì, non a caso ripetuto due volte!) che si portò via Idarella, la figlia del mandolinista amica fin dall’infanzia di Annina.
Vedi, per quanto riguarda la Forma, la pantomima della stessa Annina circa la posizione in cui collocare la sedia mentre canta il famoso brano «Bella, tu sei qual sole» e la puntigliosità di Elisabetta nell’indicare ad Annina il modo giusto di cantare quell’inno; e vedi, per ciò che concerne la «sorpresa», l’analoga e non meno puntigliosa disputa che si sviluppa fra Elisabetta e Annina a proposito delle date della morte e della quantità di sofferenza relative alle loro conoscenti colpite dal tumore.

Le tre protagoniste dello spettacolo: da sinistra, Lalla Esposito, Anita Mosca e Cristina Donadio

Le tre protagoniste dello spettacolo: da sinistra, Lalla Esposito, Anita Mosca e Cristina Donadio

Ora, riandiamo alla prima rappresentazione di «Festa al celeste e nubile santuario», che ebbe luogo al Sancarluccio il 16 marzo 1984, con la regia dell’autore, la sua interpretazione nel ruolo di Annina e quelle di Gino Curcione, Tata Barbalato e Marino Lombardi nei ruoli, rispettivamente, di Elisabetta, Maria e Toritore. Annibale Ruccello vide quello spettacolo in una replica successiva all’Accademia di Belle Arti, e disse a Enzo che gli sarebbe piaciuto esserne lui il regista: un desiderio oltremodo significante, dal momento che Ruccello proprio in quegli anni stava scrivendo il suo capolavoro, «Ferdinando», e che assonanze straordinarie si riscontrano fra i due testi.
«Ferdinando», infatti, si conclude con un avvelenamento, quello del prete Don Catellino da parte di Clotilde, così come «Festa al celeste e nubile santuario» si conclude con l’avvelenamento di Elisabetta e Annina da parte di Maria; e la stessa natura e lo stesso compito connotano, in fondo, Ferdinando e Toritore: personaggi che hanno la consistenza terribile di una pura idea, a metà fra la «bellezza che uccide» di Rilke, l’«angelo necessario» di Cacciari e «Teorema» di Pasolini.
Parliamo, allora, di una grande e irripetibile stagione, in cui si stabilirono fra Moscato e Ruccello affinità elettive tanto aeree, perché legate al codice sovrastrutturale dell’arte, quanto imperiose, perché radicate, giusto, nel duro terreno della vicenda storica della società in generale e di Napoli in particolare. Così, nell’allestimento di «Festa al celeste e nubile santuario» firmato nel 1988 da Armando Pugliese (gl’interpreti erano Isa Danieli, Angela Pagano, Fulvia Carotenuto ed Emilio Salvatore, nei ruoli, rispettivamente, di Elisabetta, Annina, Maria e Toritore) penetravano nel basso delle tre sorelle le scalinate di due vicoli, strettamente accostate alla testiera del letto e al frigorifero; mentre adesso, nell’allestimento in scena al San Ferdinando, quel basso si esaurisce in sé, non si apre più alla città.
Acquistano, perciò, un senso assolutamente emblematico le due battute di Elisabetta («’Na vota era ‘na vota! Mò si sono evolute un poco le cose») e di Annina («Ma comme maie ‘sta confusione ‘ncap’a me, neh? Pecché me sto scurdanno ‘e tutt’ ‘e feste, ‘e ricurrenze, pecché?»).
Insomma, volendo chiudere con un’altra parafrasi (suggerita, stavolta, da un altro inno qui cantato, «Sotto quel bianco velo»), il testo di Moscato non si stende, come il film di Ozpetek, sulla rutilante oasi della bellezza consolatoria, ma sul deserto cinereo della latitanza d’invenzioni e sentimenti. Oggi – questo, in ultima analisi, trasmette la riedizione di «Festa al celeste e nubile santuario», affidata ai bravi Cristina Donadio (Annina), Lalla Esposito (Elisabetta), Anita Mosca (Maria) e Giuseppe Affinito (Toritore) – ci tocca pensare un po’ a «I ragazzi terribili» di Cocteau, un po’ a «I pugni in tasca» di Bellocchio e un po’, perché no?, alla vicenda crudele di Erika e Omar.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 3/12/2019)

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4 risposte a La «Napoli velata» di Enzo Moscato

  1. Raffaele Mastroianni scrive:

    Grazie per la magnifica riflessione.
    Sì, quella della sinergia tra Moscato e Ruccello fu una stagione irripetibile, e per quanto riguarda Ruccello una grande opportunità troncata.
    Uno spettacolo duro e bello da rivedere, con la mente che ritornava spesso alle sedie scomode del Sancarluccio e a un’edizione più onirica e forse meno realistica per quanto riguarda i personaggi.
    Condivido molto i richiami, a me è venuto istintivo pensare anche alla bella, recente rappresentazione de “La scorticata” di Emma Dante tratta da Basile, un autore che pure, forse, attraversa la poetica di questo testo di Moscato.
    Bravissimi tutti gli interpreti. Mi sento di citare in particolare Lalla Esposito, che trovo una risorsa trascurata dal nostro teatro ufficiale dominato da specifiche, “monopolistiche” primedonne.
    Raffaele Mastroianni

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Raffaele,
    grazie a te, per la stima e l’attenzione che continui a riservarmi. Sono d’accordo, Lalla Esposito meriterebbe uno spazio molto maggiore di quello che i burocrati del nostro provincialissimo teatro pubblico le concedono. Speriamo che qualcosa cambi con l’arrivo di Andò.
    Enrico Fiore

  3. Francesco Scotto scrive:

    Ho assistito a una replica pomeridiana infrasettimanale e sono stato felicemente sorpreso dalla numerosa presenza di giovani attenti (nessun cellulare ha squillato) che alla fine hanno applaudito convinti.
    Concordo su Lalla Esposito: è inaudito che un bellissimo lavoro come “Teresa Sorrentino” non sia mai stato distribuito nonostante il successo ottenuto.
    Un cordiale saluto.
    Francesco Scotto

  4. Enrico Fiore scrive:

    Un cordiale saluto anche a lei. E grazie per l’attenzione.
    Enrico Fiore

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