Se il potere vieta gli specchi. E pure di guardarsi negli occhi

Fausto Russo Alesi in un momento de «La commedia della vanità» di Elias Canetti, in scena allo Storchi di Modena (la foto è di Riccardo Frati)

Fausto Russo Alesi in un momento de «La commedia della vanità» di Elias Canetti, in scena allo Storchi di Modena
(la foto è di Riccardo Frati)

MODENA – «Quella gente sta letteralmente in agguato, in attesa che qualcuno gli dica qualcosa sul suo conto. Non si conoscono affatto. Non si vedono. Ignorano tutto di sé. Nessun essere umano che sia in grado di parlare, parla con loro. Da quando sono nati nessuno gli ha mai badato. Per questo la notte si sdraiano di traverso sulla strada, perché qualcuno ci inciampi sopra. In questo modo costringono qualcuno a interessarsi di loro».
È ciò che dice Leda Frisch al suo compagno Heinrich Föhn. E si tratta, credo, del passo-chiave de «La commedia della vanità», quello dei tre testi teatrali di Elias Canetti (gli altri due sono «Nozze» del 1932 e «I dilazionati» del 1952) che adesso viene proposto allo Storchi di Modena, per la regia di Claudio Longhi, in un allestimento coprodotto da Emilia Romagna Teatro, Teatro di Roma, Teatro della Toscana e LAC (Lugano Arte e Cultura).
Infatti, ne «La commedia della vanità» – che il futuro Premio Nobel per la letteratura (gli verrà assegnato nel 1981) scrisse fra il 1933 e il 1934, prendendo spunto, in tutta evidenza, dal rogo dei libri perpetrato dai nazisti a Berlino il 10 maggio del ’33 – s’immagina che in un tempo e in una cittadina imprecisati le autorità decretino la distruzione di tutti gli specchi e, in breve, di tutto quanto contenga immagini dell’uomo: a partire dalle fotografie, dai ritratti e persino dalle pellicole cinematografiche. Lunghi anni di carcere sono previsti per chi possegga o usi questi oggetti, e addirittura la morte toccherà a chi li fabbrica.
Lo scopo dichiarato del provvedimento è quello di guarire l’umanità dal morbo costituito, per l’appunto, dalla vanità. Ma lo scopo effettivo è, ovviamente, quello di cancellare l’identità dell’individuo. E così si spiega il passo-chiave che ho citato all’inizio, il racconto che la terrorizzata Leda Frisch fa ad Heinrich Föhn di quanto le capita di osservare la sera mentre sta tornando a casa.

Elias Canetti

Elias Canetti

Comunque, al decreto in questione i cittadini reagiscono in due modi opposti: prima con un’adesione incondizionata e parossistica, che li porta a trasformare in una festa immemore il rogo degli specchi, delle fotografie e dei ritratti organizzato dalle autorità, e successivamente con tutta una serie di attività illecite dettate dalla nostalgia per la propria immagine perduta. Per esempio, il venditore ambulante Bleiss gira di casa in casa vendendo alle signore, per cinque scellini, la possibilità di guardarsi per due minuti in uno specchietto che nasconde nella sua cesta sotto le calze, i nastri e i busti. E chi non ha soldi – come le ragazzine Hansi, Puppi, Gretl, Lizzi, Hedi e Lori – si arrangia specchiandosi negli occhi degli altri.
Certo, i rischi per coloro che cedono a simili comportamenti non sono di poco conto: quando, poniamo, il Quadrumvirato viene a sapere che le ragazze «non fanno che guardarsi negli occhi», indice un’apposita seduta per mettere un freno al malcostume dilagante, e al termine di essa risulta approvata la proposta del banditore Wenzel Wondrak, il quale, puramente e semplicemente, ritiene che «l’unico rimedio efficace» sia quello, appunto, di «cavare gli occhi».
Ma se da un lato «La commedia della vanità» cammina, come si vede, sul filo dell’iperbole paradossale (cito al riguardo, sempre a titolo d’esempio, il fatto che non vengono più puliti i vetri delle finestre per impedire che negli stessi ci si possa specchiare), dall’altro s’aggancia a un puntiglioso realismo, che si esprime anche e soprattutto mediante quella che Canetti chiama l’«akustische Mask», la maschera acustica che consiste nell’insieme degli iterativi stilemi linguistici con cui l’individuo s’illude di comunicare all’interno della società massificata. E tanto – l’accoppiata dell’iperbole paradossale e del realismo puntiglioso – conduce a quello che, ben oltre i confini di una parabola sulla tirannide, rappresenta il tema centrale del testo.
Nelle sue note di regia Claudio Longhi accenna allo Steinhof. E parliamo di un accenno oltremodo intelligente e pertinente. Lo Steinhof è la collina su cui aveva sede l’omonimo manicomio di Vienna. E non a caso viene continuamente citato in «Ritter, Dene, Voss», uno dei testi più emblematici di un drammaturgo emblematico come Bernhard; così come non a caso s’intitola «Dallo Steinhof» il saggio determinante nel quale Cacciari sottolinea che da quella collina «lo sguardo abbraccia il paesaggio degli uomini postumi», gli uomini (la definizione è di Nietzsche) che «”praticano” la società ma insieme fanno i fantasmi».
Voglio dire che se Canetti, come sappiamo, si mantenne assai vicino alla cerchia dei grandi viennesi che furono i cantori della «finis Austriae», a me pare di poterlo accostare, più che ai vari Kraus, Musil e Broch da lui dichiaratamente assunti quali riferimenti imprescindibili, a Hugo von Hofmannsthal. Sulla base del passo decisivo del non meno decisivo romanzo incompiuto «Andrea o I ricongiunti»: «La vera poesia è l’arcanum che ci congiunge alla vita, che dalla vita ci separa. Il separare – soltanto se separiamo noi viviamo veramente – se noi separiamo anche la morte è sopportabile, solo quello che è mischiato è orribile».
Insomma, il tema centrale de «La commedia della vanità» è costituito dalla frantumazione e dalla dissoluzione dell’Io borghese seguite alla crisi irreparabile della Mitteleuropa. E son proprio la pretesa e l’illusione di poter continuare a considerare quell’Io sotto specie di unità totalizzante e consolante ciò che Canetti attacca frontalmente, e con ferocia e sarcasmo impareggiabili. Sicché la natura distopica del testo di cui parliamo risiede tutta in una battuta di Föhn che sembra davvero anticipare il nostro presente fatto di selfie: «Ciascuno di noi vive in stato coniugale con la propria immagine riflessa nello specchio. Quando mangiamo, è la nostra immagine che nutriamo; quando ci vestiamo, è la nostra immagine che vestiamo e anche quando siamo malati, infelici, ridotti a mal partito – l’immagine ce la conserviamo sana, altrimenti la vita non ci riserverebbe più alcuna gioia».

Un altro momento dello spettacolo, diretto da Claudio Longhi (la foto è di Serena Pea)

Un altro momento dello spettacolo, diretto da Claudio Longhi
(la foto è di Serena Pea)

Al riguardo, possiamo assumere come un eco la battuta che il direttore Garaus, giusta la didascalia, rivolge (attenzione) alla «propria pelle» quando è appena uscito dalla vasca da bagno: «Infatti oggigiorno che cosa è mai un uomo? Un uomo non è altro che la sua immagine. […] Certo, e una persona senza immagine non combinerà mai nulla di buono».
Ora, venendo allo spettacolo in sé, osservo innanzitutto che uno dei suoi meriti principali sta nella coerenza interna che lo sostiene e lo anima. «La commedia della vanità» è, insieme, una favola nera, una leggenda popolare e un fatto di cronaca. E sfociando nell’apologo allegorico, diventa un ibrido che mescola forsennatamente (e non di rado con effetti comici) la parade, il varietà, il dramma borghese e la farsa espressionistica. Sicché fa benissimo Claudio Longhi a calarlo nella dimensione formale del circo.
Il circo, infatti, è lo spettacolo d’arte varia per antonomasia. E lungo il succedersi dei suoi «numeri», sempre gli stessi ma fra loro diversissimi e persino opposti, colloca l’uno al fianco dell’altra lo sberleffo evasivo del clown e la sfida alla morte che lanciano il trapezista e il domatore di belve, approdando, sostanzialmente, a un’insignificanza accoppiata con l’ineffettualità. Proprio come avviene fra le marionette disarticolate messe in campo da Canetti.
Ecco, allora, che la scena di Guia Buzzi esibisce una grande gabbia centrale in cui si agitano personaggi che a tratti indossano maschere scimmiesche e da cui parte una passerella che si allunga in platea e termina in un podio da oratore. Così, ovviamente, si sottolinea che la faccenda rappresentata ci riguarda davvero tutti e che non è con la retorica delle parole che possiamo arginare la deriva della società di massa verso uno stato bestiale. Mentre non meno funzionali invenzioni richiamano l’ineffettualità predetta, come, poniamo, i movimenti circolari su rotaia all’interno della gabbia o la lunga sequenza di un rapporto lesbico accanto alla stessa.
Buona, infine, la prova complessiva degl’interpreti, sul filo dello straniamento grottesco che costituisce la cifra espressiva prevalente dello spettacolo: spicca, s’intende, Fausto Russo Alesi (Barloch, Föhn, Garaus), e fra gli altri si distinguono, in particolare, Aglaia Pappas (sorella Luise, Anna Barloch, Leda Frisch), Simone Tangolo (Wondrak) e Simone Francia (Schakerl).
Certo, non guasterebbe qualche altro taglio allo sterminato testo di Canetti, a parte quelli già effettuati. E comunque non guasterebbe, data la lunghezza dello spettacolo, anticiparne l’orario d’inizio. Ieri, alla «prima», è finito all’una di notte passata. E trattandosi, mi si passi il gioco di parole, di un testo tutto di testa, richiede al pubblico una più che notevole concentrazione: la quale, è inevitabile, oltre una determinata ora cede il passo alla stanchezza e a poco a poco scema. Non pochi hanno abbandonato la partita al termine del primo tempo, quando si avvicinava la mezzanotte.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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