Una «birritta» in comproprietà fra Don Nociu Pampina e Ciampa

Valentina Acca in un momento de «Il berretto a sonagli ('A nnomme 'e Dio)», in scena al Nest (le foto che illustrano questo articolo sono di Carmine Luino)

Valentina Acca in un momento de «Il berretto a sonagli (‘A nnomme ‘e Dio)», in scena al Nest
(le foto che illustrano questo articolo sono di Carmine Luino)

NAPOLI – Dunque, sono andato al Nest a vedere «Il berretto a sonagli (‘A nnomme ‘e Dio)». E naturalmente ci sono andato perché incuriosito dalla traduzione in napoletano di quel testo: traduzione che il Nest medesimo vanta come «novità» e come il pregio fondamentale del suo spettacolo, peraltro mettendo accuratamente fra parentesi il fatto che un’operazione del genere era già stata compiuta da un certo Eduardo De Filippo, nell’anno di grazia 1936 e dietro suggerimento dello stesso Pirandello.
Però, s’intende, non è questione di primogeniture. I teatranti del Nest e primo fra tutti Giuseppe Miale Di Mauro (che figura in locandina come autore della «revisione linguistica» e regista, mentre firma l’adattamento e la traduzione Francesco Niccolini) avrebbero dovuto porsi due domande, fra loro complementari: perché Pirandello suggerì proprio a Eduardo di ridurre in napoletano «Il berretto a sonagli» e perché, poi, Eduardo fece di quella riduzione uno dei cavalli di battaglia che ripropose, ad intervalli più o meno regolari, lungo l’intera sua carriera?
Ricordo, in proposito, che Eduardo – l’ultima volta che venne a Napoli, e al San Ferdinando, nel triplo ruolo di autore, regista e interprete – diede uno spettacolo in cui, accanto al suo «Sik-Sik, l’artefice magico», offrì per l’appunto «Il berretto a sonagli». E la sera della «prima», il 13 aprile 1979, al termine della rappresentazione volle sottolineare, dalla ribalta, il peso che, nell’ambito del decisivo legame col drammaturgo siciliano, attribuiva al proprio atto unico: «Lo ritengo», disse, «all’altezza del maestro Pirandello».
In breve, la risposta alle due domande di cui sopra è molto semplice: Pirandello e Eduardo appartenevano entrambi al teatro borghese. E nel quadro dell’ideologia che presiede al teatro borghese occorre collocare l’impianto drammaturgico e il plot de «Il berretto a sonagli».
Infatti, il tema-cardine di quei due atti è – come, non a caso, anche in «Sik-Sik, l’artefice magico» – l’ossessione della «dignità», ossia del mantenimento ad ogni costo del decoro esteriore. Lo scrivano Ciampa accetta che la moglie lo tradisca col suo principale, il cavalier Fiorìca, a patto che lo scandalo rimanga chiuso fra le pareti di casa.
Di tanto, del resto, fa fede il personaggio di Beatrice, che costituisce un’esatta «proiezione» dell’atteggiamento ambiguo di Pirandello: il quale – lo sappiamo (o dovremmo saperlo) – intentò, sì, un processo alla borghesia, ma non lo condusse mai fino alla condanna. E quindi – giusta la didascalia iniziale, che la descrive «pallida, isterica, tutta furie e abbattimenti subitanei» – Beatrice, la consorte del cavaliere, mette in atto una rivolta ch’è soltanto velleitaria, denunciando gli adulteri ma ben presto acconciandosi alla soluzione di passare per «pazza» inventata dal suo entourage e subito «formalizzata» da Ciampa: ciò che, d’altronde, risulta annunciato già all’inizio del secondo atto, attraverso la scena in cui Beatrice (e cito sempre la didascalia di Pirandello) «scoppia in singhiozzi» e, contemporaneamente, si getta «tra le braccia della madre». È il chiaro, e dichiaratissimo, preludio al «rientro nei ranghi».
Ma, nello spettacolo del Nest (è in scena fino a domenica), tutto questo viene completamente cancellato: a partire dalle convinzioni manifestate dal regista, il quale ritiene che, puramente e semplicemente, Beatrice sia «una rivoluzionaria femminista ante litteram» e che, rispetto all’originaria stesura in dialetto girgentino intitolata «’A birritta cu’ i ciancianeddi», la trascrizione in italiano abbia «edulcorato» il testo.
Sono, sulla base dei dati di fatto che ho cercato d’illuminare, sciocchezze da Guinness dei primati, e assolutamente irredimibili. Pirandello scrisse «’A birritta cu’ i ciancianeddi» per fare un favore ad Angelo Musco, fornendogli uno strumento testuale più adatto alle sue caratteristiche espressive. E in seguito ne scrisse la versione in italiano, appunto «Il berretto a sonagli», perché sentiva il bisogno di formalizzare quel testo sotto il profilo dell’ideologia borghese di cui sopra, portandolo, perciò, al cospetto di un pubblico d’estrazione non solo siciliana.

Da sinistra, Giuseppe Gaudino e Adriano Pantaleo in un altro momento dello spettacolo, diretto da Giuseppe Miale Di Mauro

Da sinistra, Giuseppe Gaudino e Adriano Pantaleo in un altro momento dello spettacolo

Ora, che cosa succede nello spettacolo messo su da Miale Di Mauro? Succede, per riassumere, che si crea un guazzabuglio che mescola confusamente e senza costrutto le due versioni del testo in questione, «’A birritta cu’ i ciancianeddi» e «Il berretto a sonagli». Da «’A birritta cu’ i ciancianeddi» viene, ad esempio, la serva di casa Fiorìca, la Gnà Momma, che qui prende il posto della Fana de «Il berretto a sonagli», mentre compare il Ciampa de «Il berretto a sonagli», che qui prende il posto del Don Nociu Pampina di «’A birritta cu’ i ciancianeddi». E si mescolano, sempre confusamente e senza costrutto, parole girgentine e parole napoletane. Una mescolanza che s’accampa pure nella colonna sonora, che, ancora a titolo d’esempio, propone all’inizio «Buttana di to mà», una canzone che fu di Rosa Balistreri, e nel mezzo la nostra «Presentimento».
Senza contare l’inopinato e reiterato irrompere di uno «yes» e di un «au revoir». E per quanto poi concerne la tanto vantata traduzione in napoletano di Niccolini, ci tocca un’abbondantissima messe di strafalcioni che imperversano fin dal sottotitolo: in cui troviamo un articolo («’A») al posto di una preposizione («A»). E se badiamo a quel che si sente nel corso dello spettacolo, non c’è che l’imbarazzo della scelta fra, poniamo, un «maritomo» (al posto di «maritemo») e una «matrema» (al posto di «mammema»).
Ovviamente, simili «invenzioni» linguistiche fanno il paio con quelle che Miale Di Mauro ammannisce sul piano dell’azione e che culminano, incredibile ma vero, nello sputo che Beatrice appioppa in faccia al delegato di polizia Spanò. Insomma, se volessimo definire questo spettacolo con un eufemismo, un generosissimo eufemismo, potremmo parlare di un vaudeville inzuppato nella sceneggiata.
La chiusura perfetta di un siffatto cerchio arriva, com’è logico, nel finale. Scompare la Beatrice che s’acconcia alla soluzione di passare per «pazza» e – dopo che abbiamo sentito alcune dichiarazioni dalla voce registrata di Alda Merini – ne compare un’altra che, nei panni della poetessa, recita con una sigaretta accesa in mano la poesia «Farfalle libere». Avete capito? Miale Di Mauro mette il reale internamento in manicomio della Merini al posto di quello soltanto progettato, come espediente per ripristinare l’ordine borghese infranto, della Beatrice di Pirandello.
Davvero, ti cadono le braccia. E non mi resta che annotare la presenza ininfluente in scena di Mario Cangiano, Giuseppe Gaudino e Adriano Pantaleo (ciascuno in più ruoli, anche femminili, e tutti, a turno, in quello di Ciampa) affiancati da Valentina Acca nelle vesti di Beatrice.
Poche parole, infine, per spiegare il così grande spazio dato a una boiata del genere. Più volte ho riservato al Nest elogi convinti, l’ultima quando – in un articolo pubblicato il 30 ottobre scorso sul «Corriere del Mezzogiorno» – ne ho di nuovo sottolineato il coraggio di aver trasformato – in una periferia difficile come San Giovanni – una scuola abbandonata in un avamposto di civiltà, cultura e impegno civile. E adesso mi sento spiazzato; e, peggio, tradito.
Quel coraggio va alimentato e riempito di spettacoli seri, altrimenti finisce per affogare in un avvilente e colpevole vivere di rendita. E per alimentarlo e riempirlo di spettacoli seri occorre innanzitutto studiare. Nella circostanza posso consigliare la lettura di «Pirandello tra realismo e mistificazione», un saggio di Roberto Alonge uscito molti anni fa ma ancora utile per capire, appunto, Pirandello. E per capire meglio, visto che siamo a Napoli, Eduardo De Filippo, che di Pirandello, come abbiamo visto, si considerava allievo.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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