Quel «pazzo» che vuole imprigionare la vita nelle parole

Carolina Rosi e Gianfelice Imparato in un momento di «Ditegli sempre di sì», in scena al Diana (le foto che illustrano questo articolo sono di Lia Pasqualino)

Carolina Rosi e Gianfelice Imparato in un momento di «Ditegli sempre di sì», in scena al Diana
(le foto che illustrano questo articolo sono di Lia Pasqualino)

NAPOLI – Lo dico subito. L’allestimento di «Ditegli sempre di sì» che la Compagnia di Teatro di Luca De Filippo presenta al Diana è uno spettacolo singolare e significativo insieme: perché – nell’ambito dell’omaggio a una grande tradizione, di cui Eduardo costituisce un emblema indiscutibile – coniuga, sul filo di una coerenza fruttuosa, il ricordo del passato, ossia di precedenti allestimenti di quella commedia, con il rispetto per il presente e l’apertura di questo a una prospettiva di rinnovamento. E mi spiego.
Proprio al Diana, nel 1997, Luca De Filippo presentò a Napoli il suo allestimento di «Ditegli sempre di sì». Si riservava solo il ruolo di regista, lasciando quello di protagonista in scena, il ruolo di Michele Murri, allo stesso attore, Gianfelice Imparato, che lo ricopre oggi. Ed era, esattamente, quanto Eduardo aveva fatto con Luca nel 1982, presentando al Goldoni di Venezia, nel quadro del «Carnevale del Teatro» dedicato per l’appunto a Napoli, un allestimento di «Ditegli sempre di sì» che lo vedeva impegnato unicamente come regista, mentre Luca, nei panni di Michele Murri, per la prima volta si cimentava in un lavoro scritto e diretto dal padre ma senza la presenza di questi sul palcoscenico. E infine, nel ruolo del regista dell’allestimento di «Ditegli sempre di sì» adesso in scena al Diana troviamo quel Roberto Andò che, per la prima volta alle prese con un testo di Eduardo, lascia sperare – data la sua propensione per la grande drammaturgia europea contemporanea – che lo Stabile di Napoli di cui è stato nominato direttore si volga a praticare, vivaddio, un teatro che, come ho già scritto, metta al bando la narratività narcotizzante per puntare tutto sulla problematicità stimolante.

Roberto Andò

Roberto Andò

Infatti, nelle note di regia relative a questa sua prima prova eduardiana Andò si riferisce a Bernhard e, in particolare, a «Minetti». E dirò quanto sia intelligente e fondato un simile riferimento. Ma prima riassumo le considerazioni che in merito a «Ditegli sempre di sì» sono andato sviluppando nel corso degli anni.
La trama, come sappiamo, ruota per l’appunto intorno al personaggio di Michele Murri, il quale, uscito dal manicomio convinto d’essere guarito, si vede circondato – nella stessa casa della sorella Teresa – dalla confusione e dagl’intrighi che determina il vizio ridicolo della gente di voler parere ed essere quello che non è. E insomma, chi è il vero pazzo? Michele o, per esempio, Luigi Strada, lo sfaccendato che si picca d’essere, a giorni alterni, attore e poeta?
Si capisce: i due atti di «Ditegli sempre di sì» sono attraversati da una dialettica di evidente ascendenza pirandelliana. Al riguardo, basta rilevare – a parte la teoria enunciata da Luigi e secondo la quale c’è un continuo scambio fra il teatro e la vita – la circostanza che qui le situazioni e gli sviluppi comici nascono dallo strenuo scontro fra il verosimile (o il probabile o l’auspicabile) creato dall’immaginazione e il conveniente (o lo sfuggente o il compromettente) imposto dalla quotidianità. Poiché Michele, ch’è un pazzo metodico e, a suo modo, un sottile ragionatore, finisce sempre a prendere per verità concreta ed effettuale ciò che, invece, possiede soltanto la sostanza fantasmatica e contingente delle parole dette – quelle sì, veramente – dagli altri.
Le parole, giusto. L’ascendenza pirandelliana di questa commedia – che Eduardo dichiarò di aver scritto nel 1927 ma che, quasi certamente, risale al 1925 – si racchiude nella seguente battuta del personaggio protagonista: «C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare?». Si tratta senz’alcun dubbio della battuta-chiave, che, dunque, non a caso viene detta due volte. E la prima volta che la pronuncia Michele vi aggiunge la spiegazione: «Parliamo co ‘e pparole juste ca si no m’imbroglio».
Si capisce anche questo, allora. Le parole costituiscono per il nostro «pazzo» la Forma, per sempre stabilita e per sempre riconoscibile, in cui – secondo, per l’appunto, la lezione di Pirandello – l’uomo tenta perennemente e disperatamente d’imprigionare la vita, ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione per giunta (ecco la causa dell’«imbrogliarsi») slegati l’uno dall’altro. E pensiamoci un attimo. Che cosa fa Minetti, il personaggio di Bernhard? A Dinkelsbühl, il paesino nascosto sulle montagne bavaresi in cui s’è rifugiato presso sua sorella, non smette mai di recitare il «Re Lear»: davanti allo specchio, tutti i giorni brani dell’opera («sempre gli stessi») e il tredici di ogni mese, «sempre puntuale alle otto di sera», l’opera «al completo».

Da sinistra, Edoardo Sorgente e Gianfelice Imparato in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Edoardo Sorgente e Gianfelice Imparato in un altro momento dello spettacolo

Pure Minetti, insomma, si trincera nella Forma rappresentata dalle parole. E dando seguito a questo riferimento (ripeto, intelligente e fondato), Andò cala l’allestimento di «Ditegli sempre di sì» in una dimensione mentale: a partire da quando, appena s’apre il sipario, vediamo tutti gli altri personaggi immobili, come fissati in una fotografia, mentre alle loro spalle passa in un corridoio un Michele Murri rispetto al quale, con ogni evidenza, quei personaggi appaiono unicamente sotto specie di sue visioni. Ma è solo la prima delle molte, e sempre assolutamente condivisibili, invenzioni della regia. La quale, sapete una cosa?, mi fa tornare in mente il passo di «Lassamo fa’ Dio…» in cui Salvatore Di Giacomo constata che dietro la potente consolazione del sonno («Suonno, ca te ne parte ‘a ll’uriente, / e nun t’abbence prencepe o rignante») cammina immancabilmente, e ancor più potente, l’«ombra nera», l’«ombra longa e liggiera» della Morte.
Ecco, proprio come un’ombra nera e lunga e leggera si stende costantemente, nello spettacolo di Andò, sulla superficie del plot. Per cominciare, nella scena di Gianni Carluccio il «salottino della borghesia media napoletana» prescritto da Eduardo somiglia proprio alla corsia di un ospedale psichiatrico. Al centro campeggia un divano di cui i cuscini che vi vengono deposti sopra non riescono a mascherare la struttura da letto di contenzione, dall’alto pendono globi che diffondono una pallida luce bianca. E sul fondo si aprono tre porte affiancate per l’appunto come nel corridoio di un manicomio, mentre Croce, il medico che ha avuto in cura Michele Murri, si presenterà in quel salottino indossando il camice da ospedale di prammatica.
Decisivo è anche il fatto che qui Michele Murri il «ca si no m’imbroglio» lo ripete ogni volta che dice «C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare?». Ma l’invenzione più alta e significante consiste, poi, nella citazione dell’ouverture de «La forza del destino» di Verdi all’inizio e alla fine dello spettacolo. È appena il caso di ricordare, in proposito, che il melodramma costituisce la Forma chiusa per eccellenza e che, nel melodramma medesimo, Giorgio Vigolo individuò un «surrealismo demoniaco».
Vengo adesso alla prova fornita dagl’interpreti. Per annotare, innanzitutto, che Carolina Rosi fa di Teresa una figurina dolente e smarrita che non sarà facile dimenticare, la vera e propria personificazione, appunto, della paura della vita. E al suo fianco Gianfelice Imparato ripropone il sapiente ritratto di Michele Murri che già conoscevamo: un ritratto che mescola un candore e una furbizia non disgiunti da un tratto di sottile crudeltà. Fra gli altri sono da citare almeno il sempre puntuale Nicola Di Pinto (Vincenzo Gallucci), Massimo De Matteo (Don Giovanni Altamura) e il giovane Edoardo Sorgente (Luigi Strada).
Ma voglio chiudere riandando all’omaggio a Eduardo e alla tradizione di cui all’inizio. Al posto dell’unico balcone «ad angolo della scena a sinistra» prescritto dall’autore per il salottino della casa di Teresa Lo Giudice, qui ne compaiono due, negli angoli opposti della scena come in «Questi fantasmi!»; e un attimo prima che il sipario si chiuda vediamo Teresa e Michele che si fronteggiano in maniera da richiamare «le stremenzite figure» dei fratelli Saporito che compaiono nel finale de «Le voci di dentro». Mentre, per ciò che attiene alla tradizione, basta considerare che, al termine del pranzo nella casa di Vincenzo Gallucci a Bellavista, Andò fa intonare ai commensali «M’aggio ‘a cura’», la macchietta di Pisano e Cioffi («È pazzo ‘o ‘ì!… / È pazzo ‘o ‘ì!… / ‘A gente dice: fuìte, fuì’!…») resa celebre da Nino Taranto.
Già, rimane fissa e ineludibile, quella tradizione, nell’immaginario collettivo spettacolare di Napoli. E al riguardo mi torna in mente la sera del 22 febbraio dell’82. Andai a salutare Luca De Filippo nel suo camerino del Goldoni di Venezia, al termine del debutto del citato allestimento di «Ditegli sempre di sì». E quando gli chiesi se non indulgesse troppo a imitare il padre, lui mi rispose con un lieve sorriso: «Prova tu a stare per vent’anni accanto a uno come quello e a non imitarlo».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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