Ruccello e il testo come oggetto

Annibale Ruccello al trucco (le foto che illustrano questo articolo sono di Peppe Del Rossi)

Annibale Ruccello al trucco
(le foto che illustrano questo articolo sono di Peppe Del Rossi)

NAPOLI – Riporto la seconda parte della riflessione sull’opera di Annibale Ruccello, pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Fra l’altro – riprendo il discorso dalle due versioni de «Le cinque rose di Jennifer», quella del 1980 e quella del 1986 – proprio un simile processo di accumulo delle varianti di uno stesso testo portava al tema di Napoli in quanto città «travestita» per eccellenza: una città in cui, di fronte all’impossibilità di produrre sul versante del sentimento, si assisteva a una diffusa canalizzazione dell’intero apparato culturale e delle relazioni interpersonali. E Jennifer, dunque, si faceva simbolo di una pratica di scrittura drammaturgica che non parlava di Napoli, ma, puramente e semplicemente, era Napoli: una scrittura che assumeva Napoli come corpo storico, visto, sentito e patito – lungo il suo divenire e trasformarsi – senza alcuna preclusione ideologica e, ciò che più conta, senza il timore di «sporcarsi» con le sue contraddizioni.
Annibale Ruccello, in sintesi, metteva in scena la Napoli effettiva, ormai dedita a un’autorappresentazione nel cerchio della quale, per l’appunto, gli spot pubblicitari trasmessi dalle cosiddette «radio libere» (proprio quelle adorate da Jennifer!) apparivano come il «feed-back» di situazioni che soltanto in un’epoca lontanissima erano reali e riconoscibili. Sicché ne risultava sottolineata anche l’«abitudine» storicamente precipua della società meridionale in genere, e partenopea in specie, di accogliere in sé – giusto come un costume – sovrapposizioni e stratificazioni di culture le più diverse fra loro: a prescindere dall’atteggiamento degli stessi napoletani, che da sempre hanno proposto la dimensione «teatrale» come chiave di lettura della loro città, e a prescindere, del pari, dall’interessata proiezione di Napoli su un ipotetico scenario da parte di quanti tendono a sfumarne idealisticamente la vicenda economica e civile.
Per questo, ripeto, Ruccello volle costantemente liberare il testo dal carcere della rappresentazione naturalistica, considerandolo alla stregua di un oggetto fra i tanti. Basta pensare al suo capolavoro, «Ferdinando».
Per cominciare, estrema vi risulta la stratificazione linguistica: è un testo che agisce su più livelli, dal ricalco puramente fonetico al sistema complesso e coltissimo delle citazioni. Poiché, mentre sul piano formale ci si offre un ampio spettro dei vari dialetti riscontrabili nell’area campana (da quello di Castellammare, città nativa di Ruccello, a quelli dell’entroterra vesuviano), sul versante dell’intreccio oscilliamo, evidentemente, fra il romanzo storico (immediatamente riconoscibile, al riguardo, è il modello fornito da «I Viceré» di De Roberto) e «Teorema» di Pasolini, passando per Tomasi di Lampedusa, Balzac, Thomas Mann, Collins, Huysmans, il Kammerspiel secondo Strindberg, Ibsen, Bergman e – ovviamente – Genet, senza dimenticare l’amatissimo Proust.

Ancora un'immagine di Ruccello

Ancora un’immagine di Ruccello

Anzi, per ciò che si riferisce a quest’ultimo, balza subito agli occhi che la Clotilde di Ruccello costituisce un’eclatante «riscrittura» della Léonie de «La strada di Swann», quella Léonie «che, dopo la morte del marito (…), non aveva voluto più lasciare, prima Combray, poi a Combray la sua casa, poi la sua stanza, infine il suo letto, e non “scendeva” più, sempre giacendo in uno stato incerto di dolore, di debolezza fisica, di malattia, d’idea fissa e di devozione» ma, contemporaneamente, non smettendo neppure per un attimo di occhieggiare e commentare le vicende del paese.
In altri termini, i personaggi di «Ferdinando» – nell’alternarsi di forme «alte» e di forme «basse» – sostituiscono un parlarsi addosso inventato a una realtà e a una vita che, per motivi diversi, ciascuno di loro preferisce evitare o esorcizzare. Ed è inutile dilungarsi sulla straordinaria modernità di un simile schema «teorico». Questo splendido testo, il più compiuto di Ruccello, si pone, in tutta evidenza, come un vero e proprio falso o, meglio, come una dimensione mentale. Ed a tal dimensione si richiamava, d’altronde, la chiave di regia adottata dallo stesso autore per la messinscena data, in «prima» nazionale, il 28 febbraio dell’86: vedi, tanto per riassumere, lo schema dichiaratamente «geometrico» conferito ai movimenti dei personaggi e il raffinato gioco di citazioni figurative che li avvolgeva, a partire dalla pittura fiamminga chiamata in causa da un sottolineato ricalco della merlettaia di Vermeer.
Così, il Ferdinando del titolo viene ad acquistare la sostanza terribile di una pura idea, a metà fra la «bellezza che uccide» di Rilke e, se vogliamo, l’«angelo necessario» di Cacciari.
A questo pensai quando, nel 2003, Maurizio Scaparro m’invitò a scrivere un omaggio a Ruccello da portare in scena nell’ambito della rassegna parigina da lui diretta, «Les Italiens». Nel teatro Comédie et Studio des Champs Elysées presentai, per la regia di Laura Angiulli, l’atto unico «Le ombre lunghe», definito nel sottotitolo «Suite da camera fra Proust e Ruccello». Ed era, innanzitutto, la manifestazione della decisa volontà di sottrarre Annibale al ricatto della nostalgia. Non a caso, trassi il titolo dalla poesia di Cardarelli, «Passato», che comincia rinnegando «I ricordi, queste ombre troppo lunghe / del nostro breve corpo, / questo strascico di morte / che noi lasciamo vivendo».

Di nuovo Annibale Ruccello nei panni del travestito Jennifer

Di nuovo Annibale Ruccello
nei panni del travestito Jennifer

Ma insieme, naturalmente, volevo per l’appunto sottolineare la dimensione mentale che s’accampa nell’opera di Ruccello. E infatti, attuavo in quella «suite» un continuo (e volutamente «confuso», perché in qualche modo onirico) scambio tra il personaggio del Lettore, che ovviamente ero io, e quello di un non meglio precisato Lui, che altrettanto ovviamente era Annibale. Non senza che lo scambio in questione avvenisse (e non meno «confusamente») pure tra i personaggi presenti in alcuni miei scritti narrativi e teatrali e quelli estrapolati da testi di Ruccello ormai da anni largamente noti e rappresentati. Fino al punto che, in certi momenti, il Lettore (m’interpretava un bravissimo Massimo Verdastro) «diventava» egli stesso qualcuno dei personaggi di Ruccello, per esempio (in una «riedizione» al maschile) la Jenise de «Le cinque rose di Jennifer».
Si giustificava, una simile operazione, proprio perché il merito raro del drammaturgo Ruccello risiede nel fatto ch’è stato un uomo del suo tempo, capace di coltivare strenuamente la memoria delle proprie radici senza con ciò rinunciare all’indagine, insieme accorata e lucidissima, sul presente. Da un lato praticò il rispetto della parola, letteralmente messa al bando nel teatro di ricerca di allora, con la predilezione conseguente che accordò alla trama e alla voce come veicolo fondamentale del senso; mentre, dall’altro, non trascurò mai di verificare quella parola e quella trama alla luce dei processi storici e delle trasformazioni sociali in atto. Chissà, forse proprio Annibale Ruccello ci ha impartito la più convincente lezione sulla «napoletanità» di cui tanto si parla.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

                                                                                                                                              2 – fine

(«Corriere del Mezzogiorno», 2/11/2019)

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