Riscoprire Ruccello. Come autore

Annibale Ruccello (le foto che illustrano questo articolo sono di Peppe Del Rossi)

Annibale Ruccello
(le foto che illustrano questo articolo sono di Peppe Del Rossi)

NAPOLI – Riporto la prima parte di una riflessione sull’opera di Annibale Ruccello, pubblicata venerdì scorso dal «Corriere del Mezzogiorno».

Avevo appena finito di rilevare che, con il suo allestimento de «Il sindaco del Rione Sanità», Mario Martone ha trascinato Eduardo fuori da Eduardo, fuori, cioè, dall’aura consolatoria che, in ossequio alla sua appartenenza al teatro borghese, ne connota i finali. Ed ecco che il Bellini ha proposto un allestimento de «Le cinque rose di Jennifer» (regia di Gabriele Russo, interpretazione nel ruolo del personaggio del titolo di Daniele Russo) che sottrae Annibale Ruccello alla dimensione di semplice aedo della solitudine legata al ricordo della sua presenza in scena.
In breve, sembra delinearsi una tendenza a riscoprire, circa i protagonisti della vicenda teatrale di Napoli, la loro natura d’autori, al di là della figura d’interprete che pure li ha distinti. In altri termini, si va sempre più spesso considerando, di quei protagonisti, il pensiero invece del corpo. E due sono le invenzioni di Gabriele Russo che in proposito s’impongono all’attenzione: l’incombere del coacervo delle strade e delle case di Napoli su un monocamera di Jennifer ridotto a una discarica sperduta nel nero della lava rappresa del Vesuvio e il tradursi ricorrente della recitazione nel semplice muovere le labbra da parte dell’interprete, senza che si senta alcun suono. Sono invenzioni che sottolineano come meglio non si sarebbe potuto le due caratteristiche decisive del teatro di Ruccello, la tensione dall’interno della psicologia individuale verso l’esterno della condizione sociale e la pratica del testo alla stregua di un oggetto fra i tanti. E comincio dalla prima.
Nel 1980, avendo vinto il concorso per il posto di antropologo-ispettore, il ventiquattrenne Annibale Ruccello approdò al Museo di San Martino. E lì scoprì, dimenticata in un deposito e ridotta a un informe cumulo in balia della polvere, dei tarli e delle tarme, un’ingente e preziosissima raccolta di materiali riguardanti l’opera dei pupi napoletana. Si trattava di pezzi databili fra l’Ottocento e il primo Novecento, ma talvolta persino anteriori.

Annibale Ruccello nei panni di Jennifer

Annibale Ruccello nei panni di Jennifer

Bisognava correre immediatamente ai ripari, prima che un simile patrimonio andasse definitivamente perduto. Annibale cominciò, naturalmente, dalla conta dei reperti, isolandoli uno per uno dal mucchio e catalogandoli. E questo è l’elenco che ne stilò, in un articolo apparso l’anno seguente nella rivista «Campania Stagioni». C’erano «262 pezzi di armatura, 203 teste di pupi e di animali, 66 arti vari, 2 tronconi di animali, 336 capi di vestiario, 52 turbanti ed accessori, 101 manichini di pupi senza testa, 467 scenari e manifesti e 205 fascicoli di copioni teatrali manoscritti».
Si passò quindi al restauro, che Ruccello stesso definì, nell’avviarlo, «un’impresa disperatissima anche se non impossibile». E al riguardo lascio la parola proprio ad Annibale, che concluse l’articolo citato con un appello accorato e fiammeggiante insieme: «(…) Gli arti staccati (quasi macabri ex-voto anatomici), e i corpi decapitati, i “frammenti” di armature, le teste mozze dei nostri pupi sembrano involontariamente alludere alla condizione stessa della cultura subalterna, condizione ancora tanto da ricostruire e da portare alla luce, per poter finalmente scorgere la vita che anima le mani, il movimento delle articolazioni delle braccia e delle gambe, per poter finalmente ascoltare la voce delle teste mozzate».
In breve, voglio dire che tra quegli arti staccati e quei corpi decapitati c’era tutto il teatro di Annibale Ruccello, c’erano tutti i suoi personaggi: che lui definiva «figure deportate» in quanto, è ovvio, sradicate dalla loro cultura originaria e autentica. C’erano, dunque, il protagonista de «Le cinque rose di Jennifer», emblema della mutazione che dal «femmeniello» (un fenomeno «gestito», una volta, in termini fortemente ritualizzati) ha condotto al semplice travestito (un «oggetto» votato unicamente alla funzione di merce di scambio); l’Adriana di «Notturno di donna con ospiti», privata del suo sistema di valori proletario in cambio dei laceri miti consumistici veicolati dalla televisione; la Ida di «Week-end», una professoressa che ha lasciato il suo profondo e magico Sud per trapiantarsi a Roma, dove impartisce lezioni private a ragazzini tonti e pruriginosi; la Clotilde di «Ferdinando», che la conquista capitalistica del Mezzogiorno ha espropriato del suo status sociale e soprattutto, insieme con la lingua, della sua identità; le quattro donne di «Mamma. Piccole tragedie minimali», che precipitano dalle fiabe della tradizione alla quotidianità insulsa dei nomi (Deborah, Ursula, Morgan, Isaura, Luis Antonio, Andrea Celeste, Dieguito…) affibbiati ai propri figli sulla traccia di un immaginario d’accatto diviso fra telenovelas e pallone; e, infine, l’impiegata comunale di «Anna Cappelli», che nel limbo di Latina rimpiange come un paradiso perduto («… non si tocca! È mia e non si tocca!») la camera che aveva a Orvieto nella casa di famiglia.

Annibale Ruccello ancora nei panni di Jennifer

Ruccello ancora nei panni di Jennifer

Ma tra quegli arti staccati e quei corpi decapitati c’era, naturalmente, pure Cesira, la protagonista de «La Ciociara» di Moravia che nel 1985 Ruccello adattò per la scena. Basta considerare che cosa Annibale osservò a proposito della sua riscrittura del dramma vissuto da Cesira e dalla figlia Rosetta: «È un dramma, sì, ma anche, e forse principalmente, un corto circuito culturale, il passaggio da una cultura all’altra, emblematico, poi, di una generale condizione italiana. Cesira, infatti, passa da una cultura arcaico-borghese a un’altra violentemente neo-borghese e consumista».
Nel merito, è necessario sottolineare – come già feci nell’introduzione al «Teatro» di Ruccello pubblicato nel 2005 dalla Ubulibri – che «Le cinque rose di Jennifer», il testo che nell’80 impose Annibale all’interesse e alla stima del pubblico e della critica nazionali, costituisce una vera e propria cartina di tornasole dei mutamenti sociali intervenuti a Napoli in quegli anni. E del resto, non a caso di quell’atto unico l’autore volle offrire, sei anni dopo il terremoto, una nuova versione.
Nel 1980, prima del terremoto, Jennifer abitava in una casa dei Quartieri Spagnoli (o, poniamo, di Soccavo o del Rione Traiano), arredata con il tenero e patetico kitsch di un paravento a fiori e dei ninnoli finto Capodimonte. E indossava una vestaglia fatta con le tende di merletto e un abito da sera fatto con la fodera. E ascoltava Radio Cuore Libero, con le canzoni di Patty Pravo, di Milva e persino di Orietta Berti.
Nel 1986, dopo il terremoto, Jennifer abitò in una casa di un quartiere residenziale, arredata con le veneziane e adorna di lacche nere e uccelli d’oro. E indossò una vestaglia di raso bianco, un turbante, un abito di lamé e, per andare a battere, il vestito e la parrucca di China Blue, protagonista dell’omonimo film di Russell. E ascoltò una radio che si chiamava Enola Gay (come il bombardiere B-29 Superfortress che sganciò l’atomica su Hiroshima!) e trasmetteva le canzoni di Raffaella Carrà, della Mina-strenna natalizia e, al massimo, dell’agghiacciante Gabriella Ferri di «Addo’ sta Zazà».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

                                                                                                                                           1 – continua

(«Corriere del Mezzogiorno», 1/11/2019)

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