Lo Stabile, Andò e la Biennale

Da sinistra, Peta Brady, Nicci Wilks e Sarah Ward in un momento di «Shit», presentato alla Biennale Teatro (le foto degli spettacoli che illustrano questo articolo sono di Andrea Avezzù)

Da sinistra, Peta Brady, Nicci Wilks e Sarah Ward in un momento di «Shit», presentato alla Biennale Teatro
(le foto degli spettacoli che illustrano questo articolo sono di Andrea Avezzù)

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Il 4 luglio scorso spiegai così la mia soddisfazione per la nomina di Roberto Andò a direttore dello Stabile di Napoli: a parte l’alto livello culturale e professionale della persona, l’aver scelto per la carica in questione il regista palermitano significa anche e soprattutto aver messo in cantiere il passaggio da un’idea di teatro vecchia (quella del teatro concepito essenzialmente come rappresentazione e intrattenimento) a un’idea di teatro in linea con i tempi (quella del teatro concepito come mezzo per stimolare l’esercizio di un pensiero critico nei confronti del mondo, della vita e della società).

Roberto Andò (foto di Lia Pasqualino)

Roberto Andò
(foto di Lia Pasqualino)

Adesso tento di chiarire ulteriormente la spiegazione sulla base di alcuni esempi relativi al 47° Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale e diretto da Antonio Latella. E preliminarmente riprendo le considerazioni, che ho già esposto su questo giornale, a proposito della Biennale College, fortemente voluta dal presidente Paolo Baratta. Il suo scopo fondamentale, dice Latella, «è quello di dare a un regista giovane la possibilità di essere interamente se stesso, di lasciargli seguire il proprio progetto senza vincolarlo alle aspettative sul futuro dello spettacolo»; e dunque, continua Latella, la «mission» della Biennale College «non è vendere un prodotto, ma fare scouting: mettere, appunto, un giovane regista nelle condizioni di trovare una sua “lingua”, di scrivere l’inizio di una sua grammatica».
Ebbene, una perfetta realizzazione di tali scopi è venuta con lo spettacolo «Cirano deve morire», firmato – a partire da un testo scritto da lui stesso insieme con Rocco Placidi – da quel Leonardo Manzan che, giusto, ha vinto l’anno scorso il bando Registi Under 30 della Biennale College. E che musica avremmo sentito lo si capiva subito. Entrando in sala, il pubblico trovava Cirano e Cristiano impegnati in una partita di tennis, con Rossana che li osservava dal balcone in veste di arbitro. E la partita aveva termine quando la serafica Rossana scendeva dal balcone e, inopinatamente, tirava fuori un bastone e stendeva a legnate sia l’uno che l’altro dei due «tennisti».

Antonio Latella (foto di Masiar Pasquali)

Antonio Latella
(foto di Masiar Pasquali)

Ma davvero non si trattava della solita provocazione fine a se stessa. Si trattava di rispondere all’interrogativo (quale Cirano deve morire?) implicitamente suggerito dal titolo. E la risposta di Manzan e Placidi (e soprattutto quella di Manzan in quanto regista oltre che coautore) era fin troppo evidente: deve morire il Cirano che costituisce uno degli archetipi consumistici del teatro di rappresentazione di cui sopra.
In questo senso, poi, una sconvolgente rivelazione è stata la comparsa, per la prima volta in Europa, delle australiane Patricia Cornelius e Susie Dee. La prima scrive i testi e la seconda li mette in scena. E lavorano in simbiosi da ben trent’anni, utilizzando l’una il testo e l’altra la regia come autentiche clave per mandare in frantumi – senza pietà e, insieme, con acre ironia – tutti i luoghi comuni del teatro, a cominciare dal luogo comune per eccellenza che è il teatro medesimo. I due spettacoli che hanno portato a Venezia, «Love» e «Shit», ne offrivano una dimostrazione esaustiva, e addirittura folgorante.
In «Love» c’imbattevamo in Annie, Tanya e Lorenzo, tre esistenze a perdere che – sul filo di rapporti intercambiabili – trascinavano i giorni fra droga, prostituzione e carcere. E, s’intende, l’amore ostentato dal titolo era qualcosa di cui si parlava interminabilmente ma che non diventava mai un’entità reale e stabile, tale da informare di sé la quotidianità dei tre personaggi in azione. Però, ecco il miracolo, una situazione del genere reinventava in termini drasticamente attuali uno dei «luoghi» più emblematici e decisivi del teatro classico.
«Siamo carpe», diceva alla fine Annie a Tanya. E quando Tanya chiedeva: «Che cazzo vuol dire carpe?», spiegava: «Un pesce rosso, ma diventato gigante. E non è bello, non è più rosso. Un orribile pesce gigante del cazzo. Un pesce mostro». E concludeva: «Le ho viste nel torrente, l’acqua era bassa e le ho viste. Stronze enormi, un botto di loro che facevano un casino. Sbattevano la parte superiore dell’acqua, bloccate in quest’acqua di merda, enormi e disperate, il loro tempo che gli si esauriva addosso». Uno scambio di battute che, ovviamente, richiamava quello che, ne «La donna del mare», è l’amaro sfogo di Bolette: «Noi dobbiamo starcene buoni buoni e passar la vita nello stagno delle carpe». Infatti, «il loro tempo che gli si esauriva addosso» (e assai raramente, osservo di passaggio, ho ascoltato a teatro parole di una simile potenza) era una frase che traduceva alla lettera la situazione che s’accampa in Ibsen: lo spasimare di un presente che consiste solo del perenne negarsi della vita nel momento stesso del suo manifestarsi.

Alessandro Bay  Rossi e Paola Giannini in un momento di «Cirano deve morire»

Alessandro Bay Rossi e Paola Giannini in un momento di «Cirano deve morire»

Dal canto suo – tramite i personaggi di Bobby, Sam e Billy, chiuse in un istituto di rieducazione, che non si amavano e, tuttavia, erano assolutamente legate fra loro – «Shit (Merda o anche Cazzata)» affrontava il tema della violenza sulle donne in maniera del tutto inconsueta, sviluppando, cioè, quello della violenza che le donne esercitano contro se stesse interiorizzando la violenza di cui sono vittime da parte degli uomini. Spesso, in breve, Bobby, Sam e Billy si esprimevano come se a parlare, scaricando tutta la sua tracotanza e tutta la sua frustrazione, fosse il più becero e nevrotico dei maschilisti.
Ma, per tornare all’inizio, ovvero al teatro concepito come mezzo per stimolare l’esercizio di un pensiero critico nei confronti del mondo, della vita e della società, mi sembra opportuno citare per intero l’invettiva che il Cirano di Manzan e Placidi rivolgeva agli spettatori: «Uscite! Andate via! Circolare! Qui non c’è niente da guardare! L’incidente non è stato mortale, il ferito respira ancora con lo sfollagente nel torace. Trovate pace altrove. Ridicola la vostra ostinazione. Vi offro l’occasione di uscire a prendere un po’ d’aria! Depuratevi dalla malattia dello spettacolo dal vivo. Io qui vi invito, anzi vi prescrivo, di liberarvi dalle convenzioni delle vostre convinzioni, sopravvivete senza sovvenzioni, fate sesso senza protezioni. C’è il mondo là fuori! Ma voi vi rifiutate, addirittura ogni sera anche se vi annoiate tornate. Perché? Analfabeti dei foyer, sommi poeti del nulla, esteti del cliché, questa vostra parte in una vita vissuta pourparler, uditorio d’ignoranti fatevi un regalo: uscite tutti quanti».
Insomma mi trovo in buona compagnia, io che sono stato attaccato dai ragionieri del teatro per aver osato mettere in discussione le platee sonnolente di oggi, composte in prevalenza da anziani deportati a vedere cose che non capiscono perché non preparati a vederle. E concludo ricordando quanto scrissi a conclusione del commento del 4 luglio: «È questo che ci attendiamo da Roberto Andò: uno Stabile di Napoli finalmente proiettato verso un teatro che faccia parte della nostra vita». Ho visto che i giovani «borderline» di Patricia Cornelius e Susie Dee respirano la stessa violenza che, come raccontai qui parlando della mia esperienza di marinaio, l’Australia praticò un tempo contro gl’immigrati. Perché quella è la vita, se quella è la società. E abbiamo il dovere di guardarla in faccia.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 14/9/2019)

Questa voce è stata pubblicata in Commenti. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *