Il Sindaco di Martone a Venezia

Da sinistra Massimiliano Gallo, Giovanni Ludeno e Francesco Di Leva in una scena de «Il sindaco del Rione Sanità» (le foto dello spettacolo e quella di Mario Martone sono di Mario Spada)

Da sinistra, Massimiliano Gallo, Giovanni Ludeno e Francesco Di Leva in una scena de «Il sindaco del Rione Sanità»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Mario Spada)

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Mentre mi accompagnava in macchina a vederne una prova lì al Nest di San Giovanni, sullo spettacolo Mario Martone non disse una parola. Né io gli feci domande, perché era giusto così: fra il regista che ha allestito uno spettacolo e il critico che sta per vederne una prova dev’esserci sempre una certa distanza, ovvero il silenzio che significa il reciproco rispetto dei propri rispettivi ruoli. E in silenzio, a proposito dello spettacolo, restammo anche durante il tragitto di ritorno da San Giovanni a piazza Trieste e Trento, nei pressi di casa mia.
Ma oggi che debutta alla Mostra del Cinema di Venezia il film tratto da quello spettacolo, «Il sindaco del Rione Sanità», mi tornano in mente tutte le considerazioni che, nell’assenza delle parole, presero a nascermi dopo aver visto la prova in questione. A cominciare dalla circostanza che trovai nell’allestimento di cui discorriamo l’ennesima conferma di quanto più volte avevo sostenuto: Mario Martone è la dimostrazione vivente del fatto che, per comprendere appieno un artista, occorre prestare attenzione al suo percorso, verificandone la coerenza.
L’allestimento della celebre commedia di Eduardo veniva subito dopo la messinscena da parte di Martone di «Morte di Danton», il dramma di Büchner che, come sappiamo, verte sullo scontro fra Danton e Robespierre, ossia fra l’utopia della rivoluzione e il regime del Terrore in cui la stessa si arenò. Parliamo, dunque, dello scarto fra l’idea e la pratica. E qualcosa di molto simile prospetta «Il sindaco del Rione Sanità».
Basta considerarne, al riguardo, la battuta conclusiva, pronunciata da Fabio Della Ragione: «Fa comodo a tutti un Antonio Barracano che se ne va all’altro mondo per collasso cardiaco dopo avere speso una vita intera per limitare la catena dei reati e dei delitti. Avrebbe dovuto spenderla per allargarla. Come spenderò i miei ultimi anni. (…) Io faccio il referto medico come mi detta la coscienza».
È la battuta decisiva: non solo perché dà conto del caso, unico nella produzione eduardiana, di un testo che (sfociando, addirittura, nell’uccisione del personaggio protagonista) rifiuta in maniera radicale la consueta ricomposizione finale dell’«ordine costituito», ma anche e soprattutto perché illumina come meglio non si sarebbe potuto il tema centrale della commedia: per l’appunto, come in «Morte di Danton», lo scontro fra l’utopia e la realtà, fra l’illusione e il disincanto.

Francesco Di Leva e Lucienne Perreca in un'altra scena dello spettacolo

Francesco Di Leva e Lucienne Perreca in un’altra scena dello spettacolo

L’utopia è quella di Antonio Barracano, convinto di poter garantire ai poveri e agli ignoranti la giustizia che mai otterrebbero dallo Stato dei ricchi e degli addottorati; e convinto, altresì, di riuscire con ciò a spezzare, sul versante dell’illegalità, la spirale perversa degli sgarri e delle vendette. Il tutto accompagnato dall’illusione che l’uomo possa riscattarsi dalla propria miseria morale. Il disincanto, invece, è quello di Fabio Della Ragione, che, dopo aver aiutato per trentacinque anni Barracano nella sua «assurda» impresa, si rende conto che l’uomo non è uomo, giacché non sa, come vorrebbe il «sindaco», capire «ch’è venuto il momento di fare marcia indietro e la fa».
Adesso lui, Fabio, che per trentacinque anni ha ricucito in segreto le pance e in segreto ha estratto proiettili da gambe, braccia e spalle per impedire l’«ufficialità» dei crimini e quindi le inevitabili ritorsioni, si rifiuta di mentire, e decide di rivelare che il «sindaco» è morto non per collasso cardiaco, ma per la coltellata tiratagli da Arturo Santaniello. Amarissima conclusione, amara, ripeto, come in nessun altro dei testi di Eduardo.
D’altro canto, de «Il sindaco del Rione Sanità» occorre prendere in esame, e sottolineare adeguatamente, un ulteriore e non meno decisivo aspetto, che fu lo stesso Eduardo a mettere in luce. Nel corso di un’intervista del ’72 con Sergio Lori, dichiarò che questa «è una commedia simbolica, non realistica», in quanto «parte da un personaggio vivo, vero, che affonda le proprie radici nella realtà, ma poi si sgancia da essa, si divinizza, si sublimizza, per dare una precisa indicazione alla giustizia».

Mario Martone

Mario Martone

Ebbene, Mario Martone ha illustrato e potenziato una simile ambivalenza, ossia la compresenza nel testo di elementi realistici e di elementi simbolici, con un’intelligenza, una lucidità e un’inventiva puramente e semplicemente esemplari.
Il dato realistico, poniamo, viene esaltato dall’invenzione capitale dello svolgimento a vista delle scene che nel testo di Eduardo sono soltanto raccontate: quella di ‘O Nait che spara a ‘O Palummiello e quella di Arturo Santaniello che accoltella il «sindaco». Mentre, per quanto riguarda il dato simbolico-rituale, si giunge a quella che è, senz’alcun dubbio, un’autentica e vertiginosa epifania.
Qui Antonio Barracano non muore, come da copione, nella sua stanza da letto, ma seduto al centro della tavola a cui siede, fra gli altri, anche quel Vicienzo ‘O Cuozzo che prima, liberato dal debito con Pascale ‘O Nasone grazie all’intervento del «sindaco», aveva esclamato commosso fino alle lacrime «Don Antonio è ‘o pate nuosto! È ‘o pate ‘e Napule! E te vulimmo bene, Toto’… te vulimmo bene!» e adesso nega di aver assistito all’accoltellamento di Barracano da parte di Santaniello.
Insomma, Antonio Barracano, morendo seduto al centro di quella tavola, diventa la vittima sacrificale della tragedia greca esibita sull’altare; e di più, diventa il Cristo che nell’Ultima Cena si confronta con Giuda. Si poteva inverare meglio il fatto che, giusta l’affermazione di Eduardo nell’intervista citata, il «sindaco» a un certo punto «si divinizza»? L’atto ritualistico tra affiliati a un clan costituito dalla stretta di mano che Antonio Barracano prescrive a ‘O Nait e a ‘O Palummiello (e che nega a Vicienzo ‘O Cuozzo perché, tradendo, s’è messo fuori dal clan) si trasforma nell’istituzione del sacramento dell’Eucaristia, con gli affiliati al clan che, in conseguenza della scelta di Fabio Della Ragione, si trasformano a loro volta negli Apostoli che, uscendo dalla logica asfittica di quel clan, s’incaricheranno di diffondere nel mondo il verbo della dignità, nel solco dell’evangelico «Fate questo in memoria di me» (Luca, 22, 19).
Adesso, però, la battuta di cui sopra Fabio Della Ragione non la pronuncia. Il che, certo, rimarca l’amarezza dell’insieme. E tuttavia, contemporaneamente, è come se Martone chiedesse a ciascuno spettatore un’assunzione di responsabilità rispetto a quanto ha visto, dando lui una risposta – ovvero parlando con la sua coscienza, ciò che non hanno fatto il Santaniello e ‘O Cuozzo incalzati da Fabio – senza acquietarsi in quella fornita dal plot.
Ma voglio tornare, per chiudere, al tema della coerenza che sempre presiede a un percorso artistico degno del nome. Presentando il film che ha tratto da «Il sindaco del Rione Sanità» in un contesto internazionale, appunto quello in cui si svolge la Mostra del Cinema di Venezia, Mario Martone si pone, in fondo, nel solco della mostra «Eduardo nel mondo» allestita nel foyer del San Ferdinando nell’aprile del 1979. E di coerenza parlava del resto lo stesso Eduardo, quando, dopo aver inaugurato la mostra insieme con un altro campione di fedeltà alle proprie idee come Maurizio Valenzi, allora sindaco di Napoli, volle raccontare di Roberto Bracco: del Roberto Bracco malato che aveva finalmente trovato un bravo medico e però si crucciava perché quel giovane era fascista e per giunta portava di cognome Imperatore.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 30/8/2019)

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