Esistenze a perdere come carpe in un torrente

Da sinistra, Tahlee Fereday, Carly Sheppard e Benjamin Nichol in un momento di «Love» (le foto che illustrano questo articolo sono di Andrea Avezzù)

Da sinistra, Tahlee Fereday, Carly Sheppard e Benjamin Nichol in un momento di «Love», diretto da Susie Dee
(le foto che illustrano questo articolo sono di Andrea Avezzù)

VENEZIA – «Siamo carpe», dice alla fine Annie a Tanya. E quando Tanya chiede: «Che cazzo vuol dire carpe?», spiega: «Un pesce rosso, ma diventato gigante. E non è bello, non è più rosso. Un orribile pesce gigante del cazzo. Un pesce mostro». E conclude: «Le ho viste nel torrente, l’acqua era bassa e le ho viste. Stronze enormi, un botto di loro che facevano un casino. Sbattevano la parte superiore dell’acqua, bloccate in quest’acqua di merda, enormi e disperate, il loro tempo che gli si esauriva addosso».
Parlo di «Love», il testo dell’australiana Patricia Cornelius presentato in «prima» europea nell’ambito del 47° Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale e diretto da Antonio Latella. E subito, ovviamente, lo scambio di battute di cui sopra – collocato, come s’è visto, in posizione fortemente icastica, a mo’ di sintesi di tutto quanto avevamo sentito in precedenza – mi ha fatto pensare a quello che, ne «La donna del mare», è l’amaro sfogo di Bolette: «Noi dobbiamo starcene buoni buoni e passar la vita nello stagno delle carpe».
Infatti, «il loro tempo che gli si esauriva addosso» (e assai raramente, osservo di passaggio, ho ascoltato a teatro parole di una simile potenza) è una frase che traduce perfettamente la situazione che s’accampa in Ibsen: quella di un presente che consiste solo del perenne negarsi della vita nel momento stesso del suo manifestarsi.
Si capisce, allora, che nel testo della Cornelius l’amore ostentato dal titolo è qualcosa di cui si parla interminabilmente ma che non diventa mai un’entità reale e stabile, tale da informare di sé la quotidianità dei tre personaggi qui in azione: appunto Annie e Tanya con l’aggiunta di Lorenzo, esistenze a perdere che – sul filo di rapporti intercambiabili – trascinano i giorni fra droga, prostituzione e carcere. Per loro, insomma, l’amore s’identifica proprio con il tempo che gli si esaurisce addosso.
Dico, dunque, che davvero siamo di fronte a un gran bel testo, sviluppato secondo una strategia che, logicamente, prescinde da una narratività lineare per perdersi nei meandri di pulsioni contrastanti e spiazzamenti ininterrotti. Per esempio, a Tanya che le sta descrivendo l’impatto su di sé dell’improvviso innamorarsi di lei («Era come un fulmine, come essere presi a calci in pancia, come se qualcuno mi avesse colpito tra gli occhi, come…»), Annie replica, interrompendola, con un inatteso: «Qualcuno che ti ha infilato un cracker nella figa».
Allo stesso modo, Annie, come una romanticissima fanciulla dell’Ottocento, racconta di aver legato con un nastro blu e di aver messo in una scatola sotto il letto, nella sua camera, le lettere che Tanya le ha spedito dal carcere; e a proposito della prima che ha ricevuto arriva a dire: «Quando l’ho aperta ed era da parte tua non sai come mi sono sentita. Come un neonato, tutto nuovo e sorridente e splendente, così mi sono sentita». Ma, poi, dà a Lorenzo, che le ha detto: «Tu sei la mia donna», una risposta intinta nel fiele della più immedicabile rassegnazione: «Non sono la tua donna, sono il tuo cassiere, sono la tua fonte di soldi, sono il tuo cazzo di bancomat».

Da sinistra, Carly Sheppard e Benjamin Nichol in un altro momento dello spettacolo, basato su un testo di Patricia Cornelius

Da sinistra, Carly Sheppard e Benjamin Nichol in un altro momento dello spettacolo, su testo di Patricia Cornelius

Nella migliore delle ipotesi (ed è un altro passo di non comune pregnanza) l’amore si riduce al discorso che la stessa Annie rivolge a Tanya nel rievocare il momento in cui l’ha vista per la prima volta: «Per un po’ non ho riconosciuto la sensazione che avevo. Pensavo fosse speranza, non amore, solo speranza. Spero di non essere sola, speranza che ci sia qualche altro sentimento oltre ai sentimenti di merda, speranza che la vita sia migliore di com’è».
Appunto. È il futuro quale lo configura Ibsen, affidato a un meraviglioso e a un prodigioso del tutto improbabili. E un ulteriore pregio, infine, dona al testo l’impagabile umorismo straniante che la Cornelius dissemina qua e là con perfidia e leggerezza insieme. Parlando degli assistenti sociali, Tanya commenta: «Adorano sentire come ti hanno fregata». E riguardo alla sua aggiunge: «Le dico che mio padre mi ha scopato, mio zio mi ha scopato, i miei fratelli mi hanno scopato, i ragazzi di mia madre mi hanno scopato. Gliel’ho detto, e più scopate le dico più la sua bocca si apre». E Annie: «Se le dicessi chi mi ha scopato, starei lì fino a Natale. Non riesco a ricordare quanti ne ho scopati. Sto scopando da quando avevo nove anni».
Ora, tenuto conto di tutto questo, constato che la regia di Susie Dee, la quale, non a caso, lavora in simbiosi con la Cornelius da ben trent’anni, non si limita ad essere un’interpretazione di «Love», ma è «Love», è – puramente e semplicemente – l’incarnazione di «Love» sul palcoscenico.
L’azione si svolge su una pedana quadrata (il ring dello scontro fra il teatro e la vita e/o l’altare del rito di santificazione della vita ad onta di qualsiasi sua bruttura) che emerge da un mare di coloratissime paillettes (le consolanti illusioni che circa la vita ci costruiamo e, per l’appunto, il «meraviglioso» e il «prodigioso» improbabili di Ibsen). Ed è straordinario – proprio nel senso etimologico dell’aggettivo, derivante dai termini latini «extra» (fuori) e «ordo» (ordine) – il movimento che la Dee attribuisce ai tre personaggi in questione.
Quello o quelli dei tre che non hanno la battuta o si afflosciano sino a cadere in terra o si siedono sul bordo della pedana voltando le spalle agli altri e al pubblico. Si poteva rendere in maniera più icastica e ad un tempo eclatante il concetto della vita ridotta soltanto alle parole?
Straordinari, e sempre nel senso di cui sopra, sono, del resto, anche i gesti sessuali che qui si manifestano: quelli fra Tanya e Annie appaiono, insieme, estremamente determinati e altrettanto smarriti, perché, appunto, si avventurano sul terreno della «diversità»; mentre quelli fra Annie e Lorenzo si sciolgono nelle volute di una danza leggera, perché innescati dalla presunta conoscenza del partner e dalla sua «proverbialità». Altro che la mimesi falsamente e miserabilmente realistica che di solito ci viene propinata sui palcoscenici in occasioni del genere.
Infine, gl’interpreti. Dire che Carly Sheppard (Annie), Tahlee Fereday (Tanya) e Benjamin Nichol (Lorenzo) sono bravissimi è dire niente: sono schegge, e impazzite perché sparate da un ordigno che non sanno. Sanno appena – nella scia di Kerouac – che devono andare. Andare, andare, e non importa dove.
Concludo. Io non so fare a questo spettacolo elogio migliore dell’osservare come ricordi le parole, disperate e amorevoli insieme, che Testori dedicò, in vista della morte, alla «porca, dolcissima, durissima, infingarda, ladra e divina vita».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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