Un Giappone targato Napoli

Micha van Hoecke in un momento di «Due uomini, due civiltà». Alle sue spalle Patrizia Spinosi e Lello Giulivo (le foto che illustrano questo articolo sono di Francesco Squeglia)

Micha van Hoecke in un momento di «Due uomini, due civiltà». Alle sue spalle Patrizia Spinosi e Lello Giulivo
(le foto che illustrano questo articolo sono di Francesco Squeglia)

PALERMO – Riporto il commento, pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», allo spettacolo di Mariano Bauduin «Due uomini, due civiltà».

«Io sono venuto da solo, e cosa può conquistare un uomo solo? La mia solitudine dimostra quanto siano infondate, Arai, le accuse che rivolgete al Cristianesimo. Non sono valide. I cristiani non vogliono conquistare niente. Terre e potere?… la fede nostra non si fonda su terre e potere: difende i deboli, aiuta il popolo, conforta chi soffre, consola chi è ferito, salva l’anima a chi non ha più alcuna speranza per la vita propria e degli altri».
È una delle risposte che padre Giovanni Battista Sidoti (o Sidotti) fornisce ad Arai Hakuseki, il funzionario mandato dallo Shogun a interrogarlo sugli scopi che l’hanno spinto a venire in Giappone. E il tono di quella risposta, che mescola fede e passione, riflette perfettamente la genesi e lo spirito di «Due uomini, due civiltà», l’atto unico di Annamaria Waldmueller che la compagnia «Gli Alberi di Canto» ha presentato in «prima» assoluta a Palermo, nella chiesa di Santa Maria dello Spasimo, per l’elaborazione drammaturgica, le musiche e la regia di Mariano Bauduin.
Infatti, il testo è il frutto di un innamoramento. Venuta nel 1992 a Yakushima per un’inchiesta giornalistica sui cedri secolari di quell’isoletta sperduta nel Pacifico, l’autrice scoprì per caso la storia di padre Sidoti e da allora non se staccò più, continuando a indagarne i particolari e i risvolti tra storia, religione e politica. Ed eccola in sintesi.
Nato a Palermo nel 1668, nel 1708 padre Sidoti s’introdusse illegalmente in Giappone per una missione di evangelizzazione. Ma, appena sbarcato per l’appunto sull’isoletta di Yakushima, venne scoperto e, in quanto straniero, fu subito arrestato e condotto in prigione a Edo, l’antica Tokyo. Era destinato, secondo le leggi vigenti, alla pena capitale. Senonché Arai Hakuseki era un uomo di grande cultura e, quindi, intercesse presso lo Shogun, che tramutò la condanna a morte in carcere a vita, per giunta mettendo al servizio di Sidoti una coppia di coniugi, Haru e Chosuke. Salvo che, quando Sidoti li battezzò, fu costretto a trasferirlo in un’angusta cella sotterranea, dove il sacerdote – per il quale nel 2017 è stato aperto il processo di beatificazione – morì di stenti in pochi mesi, nel 1715.
Ebbene, il testo di Annamaria Waldmueller nasce dai volumi «Seiyō Kibun» in cui Hakuseki trascrisse i lunghi dialoghi che aveva avuto con Sidoti: volumi che, inutile dirlo, acquistarono un’importanza notevole rispetto al Giappone dell’epoca, per scelta isolato dal resto del mondo. E l’intento di Bauduin – giusto il titolo – è proprio quello di gettare un ponte fra due civiltà diversissime e, specie allora, lontanissime l’una dall’altra. Tanto a partire dall’invenzione di un terzo personaggio, il Narratore.
Si tratta di un’invenzione oltremodo acuta, e assolutamente decisiva e funzionale: perché fonde il Bunraku, il teatro giapponese dei burattini in cui in cui il «ningyo», appunto il burattino, viene manovrato dagli operatori a vista, e il teatro di Brecht, che, ricordiamolo, in una nota a «L’opera da tre soldi» dettò la regola: «L’attore non deve soltanto cantare, deve anche mostrare uno che canta».
Infatti questo narratore (è un puntuale Paolo Romano) non solo commenta i dialoghi fra Sidoti e Hakuseki, ma addirittura diventa, a tratti, l’uno o l’altro dei due, appropriandosi le loro battute. Senza contare che un analogo procedimento adottò Ramuz nello scrivere per Stravinskij il libretto dell’«Histoire du soldat».
Ne deriva, lo si sarà capito, un allestimento che guarda sostanzialmente al Kabuki, e in cui la commistione fra l’Oriente e l’Occidente si traduce, ad esempio, nella sapiente immissione nello spettacolo da un lato degli «haiku», i brevissimi componimenti poetici giapponesi, e dall’altro del «villancico», il genere musicale che durante il Rinascimento e il primo Barocco fu in auge non solo nella penisola iberica, ma anche nelle colonie del Nuovo Mondo. E l’intelligenza e l’allusività della sua citazione da parte di Bauduin stanno nel fatto che nel Nuovo Mondo il «villancico» venne esportato esclusivamente in veste di composizione sacra.
In breve, Bauduin stabilisce un intrigante e sinanche provocatorio parallelo fra la storia di quel genere musicale e la vicenda di padre Sidoti. La citazione, così, finisce a trasformarsi in un elemento strutturale della drammaturgia. E lo stesso dicasi delle altre, e non meno sapienti, commistioni qui proposte. Basta considerare, sempre per fare un esempio, il caso del predetto «villancico» e persino di un brano dell’«Histoire du Soldat» (l’aria del ruscello) rielaborati facendo ricorso a strumenti orientali come lo «shamisen» e i tamburi Kodo. E a questi ultimi corrispondono, per chiudere il cerchio, un «Credo» composto su modelli busoniani e un’«Ave Maria» pentatonica.

Da sinistra, Mario Zucca e Micha van Hoecke in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Mario Zucca e Micha van Hoecke in un altro momento dello spettacolo

In conclusione, Bauduin dimostra pure in questa circostanza che sa mettere a frutto con fedeltà e autonomia insieme la lezione appresa nei vent’anni in cui è stato collaboratore di Roberto De Simone. Del resto, le scene sono di quel Nicola Rubertelli che, oggi direttore degli allestimenti del San Carlo, con De Simone ha realizzato innumerevoli spettacoli, fra i quali proprio l’«Histoire du soldat». E completano il quadro, nei ruoli di Haru e Chosuke, i bravi Patrizia Spinosi e Lello Giulivo, anche loro fra i collaboratori storici di Roberto De Simone così come Michele Bonè, chitarrista e autore delle eccellenti elaborazioni musicali.
Il ruolo di Arai è invece affidato a Micha van Hoecke, che col mondo dello spettacolo napoletano ha avuto frequentazioni significative, culminate nella regia de «Le Troiane» da lui firmata al Verga di Catania nel 1999 e garantita dalla presenza come protagonista di Lina Sastri. E la sua interpretazione è straordinaria perché, mentre con l’accento belga assicura il necessario straniamento rispetto al Sidoti interpretato dal non meno efficace Mario Zucca, in quanto coreografo assicura una gestualità «orientaleggiante» che per l’appunto alla stilizzazione del Kabuki rimanda. La stessa stilizzazione che connota anche le danze rituali costruite per gl’intermezzi da Miki Matsuse, artista giapponese di antica generazione.
Penso, d’altronde, al fatto che alla Spinosi e a Giulivo vengono affidati siparietti musicali che fondono i riferimenti barocchi al gusto esotico (quelli che comparivano nelle commedie di Gozzi, tipo «La donna serpente» e «Turandot») con gli stilemi della Commedia dell’Arte. Insomma, credo proprio che – fatte salve le dichiarate reminiscenze della partita a scacchi fra il Cavaliere e la Morte de «Il settimo sigillo» di Bergman – a questo spettacolo s’attaglierebbe benissimo il titolo «Un Giappone targato Napoli». E non mi sembra casuale, infine, che uno spettacolo del genere sia stato dato nella chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Lì, nello spazio misterico di quella chiesa incompiuta, nel cuore della parte vecchia di Palermo chiamata Kalsa e fondata, manco a dirlo, dagli arabi, Napoli è un po’ di casa.
Per esempio, lì Scaparro ambientò nel 1996 il suo adattamento de «Le mille e una notte». E il protagonista era Massimo Ranieri. E, naturalmente, indossava i panni di Sindbad il Marinaio. E dico naturalmente perché al vento e al mare appartiene l’anima di Napoli. È destinata, perciò, a perdersi sempre. E non sa mai dove si ritroverà. Sa soltanto che sempre, dovunque si ritroverà, le toccherà per salvarsi ripetere all’infinito, come Sheherazade, tutta la storia di tutti i suoi smarrimenti. Che è poi la storia di un’eterna speranza o illusione: quella che un giorno il tempo possa una buona volta fissarsi in un presente fatto di carne e che, dunque, l’anima coincida col corpo.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 27/6/2019)

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