Tre clown allo sbaraglio, con l’occhio ai Momix e a Slava

Da sinistra, Dimitri Jourde, Tarek Halaby e Romeu Runa in un momento di «Eins zwei drei» (la foto è di Augustin Rebetez)

Da sinistra, Dimitri Jourde, Tarek Halaby e Romeu Runa in un momento di «Eins zwei drei»
(la foto è di Augustin Rebetez)

NAPOLI – Per la serie «novità», eccomi a parlare, brevemente, di «Eins zwei drei», lo spettacolo di Martin Zimmermann presentato al Mercadante nell’ambito della dodicesima edizione del Napoli Teatro Festival Italia. E ho messo fra virgolette la parola novità perché, s’intende, qui si tratta di tutt’altro: intanto, è la terza volta che il regista, coreografo, scenografo e performer svizzero approda al Napoli Teatro Festival Italia, dopo esserci già stato nel 2010 e nel 2015 insieme con De Perrot; e, poi, davvero non sembra che questa sua nuova creazione, data in «prima» nazionale, brilli per originalità e inventiva.
Fra parentesi, osservo che, Svizzera per Svizzera, si poteva ingaggiare il bernese Milo Rau. Sul quale continuo ad insistere sia perché è uno dei personaggi più importanti nel panorama teatrale odierno sia perché dalle nostre parti non è mai venuto. E chiusa la parentesi, dico, riassumendo, che «Eins zwei drei» si rivela come uno spettacolo che – ambientato in un museo e basato sostanzialmente sul mimo, salvo il manifestarsi sporadico dell’inglese e quello preponderante di uno sgangherato grammelot – assume dichiaratamente un impianto circense.
Infatti, i tre performers in campo – Tarek Halaby, Dimitri Jourde e Romeu Runa, accompagnati al piano e talvolta alla batteria dall’autore delle musiche, Colin Vallon – incarnano in tutta evidenza i tre tipi canonici di clown: il clown-parlatore, il «clown de reprise» (quello incaricato di riempire i vuoti e di rilanciare la rappresentazione) e il clown-augusto (per definizione «l’uomo che prende gli schiaffi»). E dopo l’introduzione da parte di uno di loro, che in veste di presentatore non si è peritato, sabato sera, di dichiarare che non parla l’italiano ma ha Napoli nel cuore (e vorrei vedere, dal momento che a Napoli Zimmermann ha in pratica preso casa), si danno a un’ininterrotta e vorticosa serie di azioni che – sul filo del «nonsense» – mescolano tutti gl’ingredienti che appunto dello spettacolo circense e in specie dell’esibizione dei clown son propri: acrobazie, equilibrismi, contorsionismi, scivoloni e piroette, con l’aggiunta, per non negarsi niente, di tableaux vivants accoppiati con la lampada stroboscopica.
Dunque, i tre non fanno, dall’inizio alla fine, che rincorrersi, litigare, stare in bilico su una scaletta, immobilizzarsi nelle cornici appese alle pareti, entrare e uscire a rotta di collo attraverso le porte, appendersi alle quinte mobili che s’aprono a guisa di pagine di un libro nel centro dello spazio scenico. Gli effetti sono decisamente comici, e indubbia è la bravura, sul piano tecnico, di Halaby, Jourde e Runa. Ma – senza contare le lungaggini e le iterazioni che, nelle pantomime come nelle musiche, inducono una certa noia – l’insieme non denota niente d’inedito. Zimmermann (suoi, oltre alla regia, l’ideazione, la coreografia e i costumi) getta l’occhio un po’ sui Momix e un po’ su Slava Polunin senza avere né la fantasia degli uni né la poesia dell’altro.
Alla fine la scena esplode, lasciando muri sbrecciati e un tappeto di detriti. E compare un rosso mostro alieno pieno di corna e tentacoli, mentre uno dei tre performers se ne va in giro a fotografare col telefonino le macerie, i cadaveri e gli spettatori. Sarebbe l’accenno alle paure, alle guerre e alle manie che continuano ad imperversare nel mondo. Ma sa tanto di «cacciata», diremmo a Napoli, ovvero di espediente di comodo per salvarsi l’anima.
Tranquilli, però. È durato solo pochissimi minuti. E subito dopo il performer che aveva dichiarato di avere Napoli nel cuore ha attaccato con una canzone a ritmo sostenuto, invitando il pubblico (sabato sera foltissimo d’invitati, addetti ai lavori e claqueurs di varia estrazione) ad alzarsi in piedi e a ballare. E naturalmente non aspettavano altro, quelli che durante l’intero spettacolo non avevano smesso un attimo di ridere.
Per mio conto, avrei una sommessa domanda: dove sono i «temi forti come l’autorità, la sottomissione e la libertà» sbandierati da Zimmermann nelle sue note di regia? Forse la risposta sta in un errore. Forse il Napoli Teatro Festival Italia doveva assegnare «Eins zwei drei» alla sezione del Teatro Ragazzi.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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