Alfonsina, una favola nera nella Sardegna della fame

Fabio Marceddu in un momento di «Alfonsina Panciavuota» (la foto è di Angelo Maggio)

Fabio Marceddu in un momento di «Alfonsina Panciavuota»
(la foto è di Angelo Maggio)

CASTROVILLARI – Sembra quello di una favola il titolo, «Alfonsina Panciavuota», del monologo di Fabio Marceddu che il Teatro Dallarmadio ha presentato, per la regia dell’autore, nell’ambito della XX edizione del festival «Primavera dei Teatri». Ma si tratta di ben altro che una favola. O, più esattamente, si tratta di una vicenda a tal punto atroce che appare come una favola, nel senso che assume la favola in quanto proiezione del lato oscuro (e, pure, determinante) della nostra anima e della nostra vita.
Si racconta qui di una donna, classe 1932, ultima di nove figli, che nella Sardegna del secondo dopoguerra i genitori vendono come serva, quando ha solo dieci anni, a Caterino Spinetti, padrone di una miniera, e alle sue tre sorelle zitelle Maria Pia, Maria Rosa e Maria Dolores. E lì, in quella casa piena di soldi ma vuota d’ogni anelito umano, Alfonsina è costretta per quattro anni a discendere sino in fondo la scala della degradazione: angariata dalle tre zitelle e abusata dal padrone, fino a restarne incinta, oltre che dal mezzadro e dal parroco don Oliviero. La liberazione verrà dall’incontro con Efisio, il minatore che capeggia la rivolta contro gli Spinetti per reclamare il pagamento dei salari.
Ora, aggiungo subito che Marceddu si rende conto dei rischi che comportano il trasferimento nella scrittura e l’esposizione sul palcosconico di una materia tanto cruda, ma non sempre riesce ad evitarli. Sicché c’imbattiamo, contemporaneamente, nell’efficace ricorso in chiave di straniamento all’ostico dialetto sardo e nell’adozione di un tono declamatorio di basso profilo, a partire dalla spiegazione tutto sommato superflua: «Allora si vendevano, i figli, per salvarli. Salvarli? Salvarsi! Una bocca in meno da sfamare».
Direi, per riassumere, che non spira in questo spettacolo il «bentu e macchimini» (il vento di follia) a cui Alfonsina chiede di darle forza e di scaldarle il cuore. E al suo posto, invece, s’accampa il dispiegarsi, nel tragico epilogo della vicenda narrata, di ridondanze addirittura granguignolesche: «La prima ad essere infilzata fu Maria Pia. Un forcone la trapassò. Una pozza di sangue si riversò ai piedi del canapè. Le strapparono i denti d’oro, i capelli fino alla radice, gli orecchini se li presero coi lobi. Maria Dolores fu trascinata per i piedi giù per le scale, la testa faceva un terribile suono mentre rimbalzava gradino dopo gradino. La spogliarono e la penetrarono con tutto ciò che avevano a portata di mano. Era ancora viva quando all’ingresso la finirono a colpi di pietra. Maria Rosa, in ginocchio, piangeva e implorava: le strapparono le vesti, la sollevarono di peso. Se la lanciavano, se la palleggiavano palpandola, infine la gettarono dalla finestra. Morì sul colpo». E come se non bastasse, si sottolinea pure che il corpo di Maria Dolores viene dilaniato dai cani.
Marceddu avrebbe dovuto, in proposito, ricordare che il più moderno dei tragici greci, Euripide, l’uccisione dei figli da parte di Medea non ce la fa vedere, la fa avvenire dietro le quinte. E visto che cita «La Gatta Cenerentola» di Roberto De Simone, mi limito a richiamare la sua attenzione sul fatto che quel leggendario spettacolo era tutto, dall’inizio alla fine, basato sul simbolo: perché De Simone sapeva bene che, se c’è una cosa che dal teatro dev’essere assolutamente bandita, quella è il realismo, delle parole prima che delle immagini.
Tuttavia, in questo caso vale il contrario di quanto ho più d’una volta constatato in precedenza: l’allestimento è di gran lunga migliore del testo. A parte la bravura di Marceddu in quanto attore, l’ideazione scenica e la regia di Antonello Murgia offrono invenzioni che sul piano figurativo ed espressivo risultano, in pari tempo, fondate e intriganti. Vedi la sequenza in cui Alfonsina leva in alto la bambola che rappresenta se stessa e, con ciò, richiama in maniera eclatante il Bunraku, il teatro giapponese dei burattini in cui in cui il «ningyo», giusto il burattino, viene manovrato dagli operatori a vista; e vedi, soprattutto, quella sorta di dissolvenza incrociata che comprende in successione la zuppiera portata in tavola dall’Alfonsina/serva e i tre stracci rossi che dalla stessa, per alludere all’uccisione delle zitelle Spinetti, tira fuori l’Alfonsina/vendicatrice.
Infine, una curiosità: il Fabio Marceddu inguainato in quella sua disadorna veste nera richiamava molto da vicino il Saverio La Ruina di «Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria». Il pubblico locale, all’uscita, commentava quella somiglianza con un misto di sorpresa e di orgoglio campanilistico.

                                                                                                                                         Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *