Se Ionesco crea un suo profilo su Facebook

Da sinistra, Elena Ferrantini, Gianmarco Saurino e Mauro Lamanna in un momento di «Contro la libertà» (la foto è di Angelo Maggio)

Da sinistra, Elena Ferrantini, Gianmarco Saurino e Mauro Lamanna in un momento di «Contro la libertà»
(la foto è di Angelo Maggio)

CASTROVILLARI – Una madre e un figlio migrante separati dalla recinzione che in Europa divide uno Stato dall’altro. Un giovane e una giovane davanti all’altare, in procinto di sposarsi. Due uomini e una donna chiusi in una stanza e che hanno rapporto con l’esterno solo attraverso i cellulari. Una moglie e un marito dal dottore. Una donna che in un parco dei divertimenti parla con un’altra che non le risponde. Un uomo e una donna alle prese con il disordine che lei ha scatenato buttando per terra gli abiti e le scarpe tirati fuori dagli armadi. Un agente immobiliare e un’acquirente nella sala da pranzo di un appartamento in vendita.
Sono i personaggi che, nell’ordine, figurano nelle sette scene di cui è composto «Contro la libertà», l’atto unico di Esteve Soler presentato in «prima» nazionale, nell’ambito della XX edizione del festival «Primavera dei Teatri», dal collettivo Divina Mania. Si tratta del testo iniziale di quella che l’autore catalano definisce «Trilogia della rivoluzione». Gli altri due s’intitolano «Contro l’eguaglianza» e «Contro la fraternità». E se non bastassero titoli del genere, provvede il sottotitolo di «Contro la libertà» («7 pezzi brevi di Teatro dell’Assurdo») a dar conto della sostanza e delle forme dei copioni in questione.
In breve, è davvero come se Ionesco avesse creato un suo profilo su Facebook. Al prete che le ha chiesto di rispondere alla fatidica domanda «Prometti di amare e di proteggere Eric nella salute e nella malattia, nella povertà e nella ricchezza, finché morte non vi separi?», Anna replica con un’altra domanda: «C’è qualcuno in grado di garantire un amore solido, senza incrinature, se viene costretto ad essere in un certo modo fino alla morte?». E dallo stallo che così viene a determinarsi il malcapitato celebrante non sa uscire altrimenti che minacciando i promessi sposi con una pistola. Finché parte un colpo che uccide lo sposo che cerca di fermarlo, dopo di che il sacerdote, sconvolto, si spara in bocca. E nel suono festoso delle campane della chiesa, la sposa esclama: «Libera, finalmente…».
Dunque, si capisce perfettamente il significato del titolo «Contro la libertà», all’apparenza privo di senso: Soler si scaglia non contro la libertà, ma contro ciò che si presenta o, peggio, viene contrabbandato come libertà. Vedi, in proposito, la terza scena. Mentre dall’esterno arrivano i rumori di una raffica di colpi e dell’esplosione di una bomba, sul display dei telefonini dei tre personaggi chiusi in quella stanza compaiono messaggi quali «tutto a posto» e «mi piace» per quanto riguarda gli uomini e «favolosa» per ciò che concerne la donna, la quale, intanto, è stata raggiunta da un proiettile e va dissanguandosi.
Già, si capisce anche che parliamo di un testo che – sul filo di un’impagabile ironia straniante, condotta persino ai limiti del «noir» e del granguignolesco – nasconde, nel fodero di un divertimento ad oltranza, l’affilatissima lama di un’allusività del tutto motivata, e sul piano morale e su quello politico, ovviamente nell’accezione nobile dell’aggettivo. Di modo che, certo, una franca risata ci suscita quell’agente immobiliare che dice all’acquirente: «Non si trovano più soggiorni come questo» e «Sono convinto che l’ha veramente impressionata» dinanzi all’impiccato che pende dal lampadario, ma si trasforma in una smorfia amara quando sentiamo il dottore comunicare alla moglie che il marito «ha subìto un attacco di pensiero indipendente» e, di conseguenza, ha contratto il vizio vergognoso di leggere libri.
L’acme di tutto questo si tocca (e, dunque, è un approdo collocato in posizione fortemente icastica, in guisa di anticipazione riassuntiva e ammonitrice) nella prima scena. La madre e il figlio, nonostante la recinzione che li separa, sono ancora uniti dal cordone ombelicale. E la donna ripete più volte: «Ricorda che è per il tuo bene». Poi – dopo avergli esposto l’infinita gamma dei valori e delle bellezze che lui troverà dalla sua parte della recinzione, dalle mele di Cézanne ai girasoli di Van Gogh, dalla Divina Commedia di Dante a «Don Chisciotte» di Cervantes, da Jacques Brel a Debussy – stringe il cordone ombelicale intorno al collo del figlio e lo strangola.
A me è tornata in mente la dichiarazione di un nero africano in un lontano esempio del cosiddetto cinema-verità: «Quando si ha fame non si dipingono quadri». Quella madre uccide il figlio proprio «per il suo bene»: perché, se non muterà la sua condizione sociale ed economica dopo che sarà passato dall’altra parte della recinzione, le mele di Cézanne, i girasoli di Van Gogh, la Divina Commedia di Dante, il «Don Chisciotte» di Cervantes, Jacques Brel e Debussy suoneranno per lui come una beffa atroce.
Ma vale anche per «Contro la libertà» il discorso che ho fatto a proposito de «La nave fantasma». Il testo è superiore al suo allestimento. Anzi, per essere più preciso, dico che il suo allestimento è di gran lunga inferiore al testo, fino, addirittura, a negarne le potenzialità sostanziali. In questo caso, però, occorre – prima dell’analisi dello spettacolo in sé – qualche annotazione di cronaca.
La folla inconsueta che si pigiava nell’angusto ingresso del Teatro Vittoria non era dovuta, come forse qualche inguaribile ottimista aveva pensato, a un ritorno di fiamma dell’interesse per il teatro di ricerca, ma semplicemente al fatto che fra gl’interpreti di «Contro la libertà» figurava un attore che ha preso parte a una fiction televisiva. E i risultati sono stati: prima un vero e proprio assalto alla diligenza per accaparrarsi i posti delle prime file e poi uno sghignazzare senza soste dall’inizio alla fine.
Del resto, il regista, Mauro Lamanna, ha allestito uno spettacolo che punta proprio su questo, sulla ricerca di ogni possibile effetto comico nel solco della più ovvia sit-com televisiva. E a tale scopo obbediscono, evidentemente, il ricorso ai dialetti e i continui ammiccamenti al pubblico. Mentre, dal canto loro, i tre interpreti (lo stesso Lamanna, Gianmarco Saurino ed Elena Ferrantini) esibiscono una recitazione che spesso non lascia distinguere le parole, a causa, insieme, delle voci scarsamente impostate e dell’accavallarsi di quelle nel più puro stile dei talk-show.
Insomma, mi permetto di scorgere in questo spettacolo un segnale preoccupante. «Primavera dei Teatri» era un’oasi d’intelligenza e di coraggio nel deserto della cultura teatrale odierna e, in particolare, nel deserto culturale in genere quale si manifesta nel Mezzogiorno. Non vorrei che cominciasse ad accusare cedimenti. Che c’entra, un siffatto allestimento di «Contro la libertà», con la definizione che si è data: «nuovi linguaggi della scena contemporanea»?

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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