Milo Rau, indagine su un delitto al di là della rappresentazione

Da sinistra, Sébastien Foucault e Tom Adjibi in una scena di «The Repetition, Histoire(s) du théâtre (I)» (la foto è di Michiel Devijver)

Da sinistra, Sébastien Foucault e Tom Adjibi in una scena di «The Repetition, Histoire(s) du théâtre (I)»
(la foto è di Michiel Devijver)

MILANO – «Non si tratta più soltanto di ritrarre il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa». «Almeno due attori sul palco non devono essere attori professionisti». «Almeno una produzione per stagione deve essere ripetuta o eseguita in una zona di conflitto o di guerra, senza alcuna infrastruttura culturale».
Sono, rispettivamente, i «comandamenti» Uno, Sette e Nove del decalogo/manifesto che Milo Rau ha stilato per il teatro cittadino che dirige a Gent, in Belgio: un decalogo /manifesto che richiama lo spirito del «Dogma 95» di Lars von Trier e che chiunque lavori in quel teatro è tenuto a sottoscrivere. Ed ecco, basterebbero i tre «comandamenti» citati a dimostrare come il fatto che per la prima volta Rau sia approdato al Piccolo vada ben oltre il mero dato di cronaca. In breve, parliamo dell’irruzione nel tempio dell’ufficialità teatrale di colui che proprio l’ufficialità si propone di combattere.
Infatti, lo sappiamo, il fondatore dell’International Institute of Political Murder realizza spettacoli basati su testimonianze storiche dirette, operando spesso una particolare forma di reenactment: ovvero la ricostituzione di eventi che, per essere stati estremamente «volgarizzati» dai media, fanno ormai parte della memoria collettiva. E in questi termini s’è occupato, per esempio, di RTLM (la radio che fomentò il genocidio dei Tutsi in Ruanda), del processo Breivik e delle ultime ore di Elena e Nicolae Ceausescu.
Ora, perfettamente in linea con simili premesse si pone lo spettacolo – «The Repetition, Histoire(s) du Théâtre (I)» – che Milo Rau ha portato al Piccolo Teatro Strehler. È il primo capitolo di una parafrasi delle godardiane «Histoire(s) du Cinéma» che intende riflettere sull’essenza, la vicenda plurisecolare e il futuro del teatro. E trae spunto da quanto accadde nell’aprile del 2012 a Liegi: una notte, dopo aver parlato per qualche tempo con un gruppo di ragazzi davanti a un bar gay, un uomo di origine magrebina, Ihsane Jarfi, è pestato a sangue e rinchiuso nel bagagliaio di una Polo grigia; e due settimane più tardi il suo cadavere nudo viene rinvenuto al limitare di un bosco. L’uomo è stato torturato per ore e assassinato con ferocia inaudita.

Milo Rau

Milo Rau

Ebbene, il celebre autore e regista svizzero non si sofferma soltanto sulle origini e le motivazioni dell’assassinio, inquadrabili nella violenza e nella disperazione a cui il declino economico ha condotto Liegi, ma, anche e soprattutto, giusto sui suoi particolari e sulle modalità della sua esecuzione. Perché lo scopo fondamentale di Rau – in linea con i tre «comandamenti» del proprio decalogo/manifesto citati – è quello di dar forma al «tragico» come rappresentazione allegorica della criminologia.
Riassumendo, si potrebbe dire che questo spettacolo si schiera contro Euripide, che non ci fa vedere l’uccisione dei figli da parte di Medea, e a favore di Seneca, che invece ce la mostra in tutta la sua crudezza. E possiamo assumere proprio il personaggio di Medea nelle versioni opposte che ne diedero Euripide e Seneca come cartina di tornasole dell’assassinio di Ihsane Jarfi quale lo mette in scena Rau: rispetto a quella di Euripide – fatta dell’intreccio (se non dell’equilibrio) fra intelligenza, sentimento, ragione, passione, riflessione e desiderio – la Medea di Seneca è odio e passione allo stato puro, rappresentati nel loro parossistico scatenarsi e nella completa, e inesorabile, assenza (o impotenza) della ragione.
Non a caso, d’altronde, Artaud riconobbe per l’appunto in Seneca il più deciso e limpido antesignano del «teatro della crudeltà». E radicale, di conseguenza, appare il dispiegarsi senza freno, nello spettacolo di Milo Rau, dell’emozione legata, insieme, al terrore indotto dalla ferocia del delitto qui ricostituito e al senso di perdita che quel delitto suscita.
Le due dimensioni – del «gelo» determinato dall’assenza della ragione e del «fuoco» innescato dall’odio parossistico – vengono rese attraverso l’interazione fra uno schermo e il palcoscenico, ossia fra l’immagine e il corpo. Ma, nella circostanza, davvero non c’imbattiamo nelle proiezioni che ormai dilagano a teatro come semplici orpelli. E faccio al riguardo un solo esempio. Sullo schermo vediamo la madre di Ihsane Jarfi e il suo uomo a letto, sul palcoscenico li vediamo mentre si spogliano; vediamo, cioè, sullo schermo il dopo e sul palcoscenico il prima. Finché lo schermo e il palcoscenico giungono a coincidere, sia sullo schermo che sul palcoscenico vediamo la madre di Ihsane Jarfi e il suo uomo mentre amoreggiano. Il prima e il dopo diventano la stessa cosa, il tempo si annulla.

Ancora Tom Adjibi in un altro momento dello spettacolo, presentato al Piccolo Teatro Strehler

Ancora Tom Adjibi in un altro momento dello spettacolo, presentato al Piccolo Teatro Strehler

Non poteva essere diversamente, del resto. Lo spettacolo di Milo Rau ricostituisce il processo intentato agli assassini di Ihsane Jarfi, con i tre attori professionisti qui impiegati (Sara de Bosschere, Sébastien Foucault e Johan Leysen) nelle vesti dei giudici e gli attori dilettanti Suzy Cocco, Tom Adjibi e Fabian Leenders in quelle dei testimoni. E dunque siamo dalle parti di Ibsen: il quale tentò di risolvere il problema di farlo vivere sul palcoscenico per l’appunto sottoponendo il passato a un processo.
Ma, ovviamente, quella soluzione era un artificio. E giusto l’artificio, ossia il teatro in quanto rappresentazione, Milo Rau batte in breccia, senza sosta e con determinazione e lucidità assolute. Infatti, vediamo sul palcoscenico attori che non smettono mai, neppure per un momento, di porsi come persone. In particolare, gli attori che si accollano il ruolo dei testimoni sono, insieme, quei testimoni e i dilettanti che affrontano il provino per ottenere il ruolo dei testimoni: a cominciare da Suzy Cocco, figlia di un sardo emigrato in Belgio a fare il minatore, che arrotonda la magra pensione portando a spasso i cani dei ricchi e alla quale viene chiesto se sarebbe disposta a mettersi nuda davanti al pubblico. Cosa che farà effettivamente quando, ottenuta la parte della madre di Ihsane Jarfi, si esibirà fra schermo e palcoscenico nelle sequenze che ho descritto.
La domanda rivolta a Suzy Cocco dice, poi, anche dell’altro pregio decisivo dello spettacolo di Rau: lo straniamento effettuato per mezzo di un’ironia nello stesso tempo leggera e penetrante, come, per fare ancora degli esempi, nel caso degli schiaffi platealmente fittizi, del continuo ricorrere con varianti della battuta «A Liegi sei disoccupato, a meno che non lavori nei film dei fratelli Dardenne» e dell’attacco affidato a Johan Leysen, il quale – dopo aver dissertato sulla difficoltà che prova nell’entrare in scena e averci informato che ha interpretato anche i morti – ordina che sia fatta la nebbia e si mette a recitare il monologo del fantasma del padre di Amleto.
Infine, la ferrea e oltremodo significante coerenza che presiede allo svolgimento drammaturgico. Lo spettacolo consta di cinque capitoli, tanti quanti sono gli atti della tragedia canonica. Ma ecco che nel momento culminante entrano in campo le «Impressioni teatrali» di Wyslawa Szymborska: «Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto: / il risorgere dalle battaglie della scena, / l’aggiustare le parrucche, le vesti, / l’estrarre il coltello dal petto, / il togliere il cappio dal collo, / l’allinearsi tra i vivi / con la faccia al pubblico». E l’elogio del sesto atto, quello che non c’è, richiama la vertiginosa lezione che ci diede Carmelo Bene quando proclamò: «Io sono là dove manco».
Nell’ultima sequenza accade, infatti, che Tom Adjibi, il dilettante che interpreta Ihsane Jarfi, prima canta «The cold song» di Purcell e quindi – dopo aver dissertato a sua volta sulla difficoltà che l’attore prova nell’uscire di scena – sale su una sedia e, manco a dirlo, infila la testa in un cappio. Buio. E chi vuol capire ha capito. Questo è un grande spettacolo teatrale perché è uno spettacolo contro il teatro: uno spettacolo che, come la verità, sta dove non c’è, dove non viene dichiarato.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *