Il teatro a Napoli fra illusioni e realismo

Un  momento di «Luciano», lo spettacolo di Danio Manfredini presentato di recente al Politeama (la foto è di Manuela Pellegrini)

Un momento di «Luciano», lo spettacolo di Danio Manfredini presentato di recente al Politeama
(la foto è di Manuela Pellegrini)

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

«Nel realismo sono presenti due dimensioni (inestricabilmente connesse), una normativa/prescrittiva e una descrittiva/interpretativa. Sul piano normativo, realismo non significa affatto, come troppi ancora credono, “cinismo”. Implica invece (e al contrario) l’idea che solo osservando la realtà per come essa è, e non per come ci piacerebbe che fosse, si possono evitare fughe nell’irresponsabilità. Inteso dal punto di vista normativo, il realismo comporta responsabilità verso gli altri, significa non eludere i problemi, non voltare le spalle di fronte alla loro durezza, non illudersi né illudere che le soluzioni siano tutte semplici e tutte a portata di mano. Normativamente parlando, il realismo, insomma, è una forma di moralità».
È un passo, pubblicato dal «Corriere della Sera» il 17 aprile scorso, della prefazione di Angelo Panebianco e Sergio Belardinelli al loro libro «All’alba di un mondo nuovo», edito dal Mulino. E quasi come un eco delle considerazioni fatte da Panebianco e Belardinelli si pose l’editoriale di Enzo d’Errico intitolato «L’ostinato rigetto della realtà» e pubblicato dal «Corriere del Mezzogiorno» tre giorni dopo. I due scritti mi sembra che possano costituire, adesso, la migliore delle introduzioni al discorso che vado a svolgere.
Da varie parti, io sono stato accusato di voler chiudere in un ghetto gli spettatori anziani che frequentano, in maggioranza, le sale del Teatro Stabile di Napoli. Ma m’ero limitato a constatare, in queste pagine, che il 24 febbraio, in occasione della seconda e ultima replica di «Romeo&Juliet, or the merciful land» di Luk Perceval, c’erano al Mercadante, per l’appunto, solo anziani, in prevalenza donne, «deportati» in non pochi casi (lo lasciava capire il loro accento) dai più sperduti paesi dell’entroterra campano e che (lo lasciavano capire i loro commenti) si trovavano assolutamente smarriti di fronte alla drammaturgia complessa e del tutto fuori dai canoni che a loro veniva offerta. E dopo aver osservato che, certo, anche gli anziani (e anche gli anziani che abitano nei paesi sperduti dell’entroterra) hanno il diritto di andare a teatro, ma a patto che gli si fornisca un minimo di preparazione, avevo citato al riguardo l’esempio del Bellini, che ha istituito per gli anziani un turno di abbonamento da cui sono esclusi gli spettacoli troppo difficili, sperimentali o, in ogni caso, non rapportati al loro livello medio di conoscenza specifica.

Carmelo Bene

Carmelo Bene

Mi si è risposto, proprio nel solco dell’ostinato rigetto della realtà denunciato da d’Errico, che il teatro parla a tutti e a tutti possono parlare, indistintamente, tutti i tipi di spettacolo. E a sostegno di una simile presa di posizione si son tirati in ballo, nientemeno, l’Eschilo che parlava all’intera «polis» ateniese (ciò che implica l’avventurosa equazione Atene di Eschilo=Napoli di De Fusco) e la povera Sarah Kane (ciò che implica l’altrettanto avventurosa ipotesi che nell’Inghilterra degli anni Novanta abbondassero gli spettatori teatrali, non importa se anziani o giovani, affetti da tendenza al suicidio).
Scherzi (ma non tanto) a parte, tali esternazioni affondano in una mistica del teatro completamente fuori della storia e, oggi, semplicemente improponibile. E in proposito voglio rievocare un episodio che accadde nell’anno di grazia 1994, quando all’Augusteo sbarcò un certo Carmelo Bene.
Il compianto Francesco Caccavale, ipnotizzato dalla fama inarrestabile del gran Demiurgo dell’Assenza, gli aveva chiesto che cosa potesse portargli. E Bene gli aveva proposto di scegliere fra due spettacoli, «Hamlet suite» e «Canti orfici». Ma lui, Francesco, nel merito non volle ascoltarmi. Quando mi telefonò perché gli dessi un consiglio su quale dei due spettacoli scegliere, io gl’indicai decisamente il primo: «È più “impupazzato”, ci sono anche due attrici nude fino alla cintola. Mi pare che per il tuo pubblico sia più adatto dello spettacolo su Campana, fatto solo di versi e, per giunta, di versi particolarmente difficili». Caccavale, invece, si prese i «Canti orfici», probabilmente perché costavano meno. Ed ecco che cosa successe all’Augusteo quella sera del 4 novembre.
Il divino Carmelo, avendo deciso di stuprare, dopo il testo, persino la propria immagine, sfregiandola e azzerandola, si presentò sul palcoscenico, dietro il leggìo e il microfono, con la faccia vistosamente incerottata. E, come mi aveva anticipato, diede luogo a una lettura che era un autentico «sconcerto», un autentico delirio. Più che la voce della poesia, entrava in campo la poesia della voce: una lettura come non ricordo, come fine del ricordo.
Scattarono, naturalmente, soprattutto gli applausi e le acclamazioni dei giovani: anche a scena aperta. Degli altri spettatori, qualcuno se ne andò e qualche altro mormorava. Tanto che Carmelo, prima di una breve pausa necessaria a cambiare «spartito», ironizzò: «Se volete, potete pure continuare a commentare, ma a voce non troppo alta». A voce altissima protestavano intanto, nel foyer, quelli che se n’erano andati: e minacciavano furiose vendette contro Caccavale, che, terrorizzato, si nascose dietro la tenda rossa che si trova di fianco alla cassa dell’Augusteo, e lì rimase finché i furiosi non si stancarono di cercarlo e si allontanarono verso il tranquillo e rassicurante approdo delle loro case.

Una scena di «Romeo&Juliet, or the merciful land» di Luk Perceval, dato in febbraio al Mercadante

Una scena di «Romeo&Juliet, or the merciful land» di Luk Perceval, dato in febbraio al Mercadante

Ora, è accaduto che il figlio di Francesco, Giuseppe, sia stato incuriosito dal teatro di ricerca. Ma non si è minimamente sognato di portarne i prodotti all’Augusteo, il tempio, a Napoli, del teatro d’evasione e di puro intrattenimento. Invece ha varato un rapporto di collaborazione con il Teatro Area Nord di Lello Serao e Hilenia De Falco, mettendo a loro disposizione il Politeama, in cui sono stati dati l’anno scorso «Macbettu» di Alessandro Serra e quest’anno, dopo «Socrate il sopravvissuto – come le foglie» di Anagoor e «The night writer» di Jan Fabre, «Luciano» di Danio Manfredini: sempre con il teatro pieno, e affollato, manco a dirlo, soprattutto da giovani e ragazzi.
Ve l’immaginate l’accoglienza che gli spettatori dell’Augusteo avrebbero riservato a «Luciano», con le sue sequenze crudissime ambientate – tra checche, travestiti e marchettari – nei cessi della stazione e in un cinema a luci rosse?
Ma voglio chiudere citando il saggio «Molière. Uno scrittore di teatro e il suo pubblico» di uno studioso del calibro di William D. Howarth, pubblicato ancora dal Mulino. Vi si dimostra come Molière sia stato influenzato dalla differenziazione sociale e culturale dei propri spettatori, rappresentati, di volta in volta, dalla «précieuse», dal «marquis», dall’uomo di lettere, dall’«honnête homme» e dalla frequentatrice dei «salons». Il realismo, signori, il realismo. Penso a un altro che di teatro un po’ s’intendeva. Si chiamava Bertolt Brecht. E scrisse: «Non c’è uomo che possa a lungo veder cadere una pietra e dichiarare “non cade”».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 7/5/2019)

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