Il comunista, il fascista e «l’Unità» sulla bara

Gianrico Tedeschi in «Farà giorno»

Gianrico Tedeschi in «Farà giorno»

Renato, un anziano comunista ex partigiano. Manuel, un giovane fascistello di borgata che, avendo rotto una gamba a Renato investendolo con la sua Golf, adesso è costretto a fargli da infermiere per non essere denunciato. E Aurora, la figlia di Renato, che torna dopo un’assenza e un silenzio durati trent’anni: entrata in un gruppo terroristico, era stata denunciata dal padre e, dopo il carcere, aveva cercato di espiare e dimenticare quel passato andandosene come medico volontario in Africa.
Questi i personaggi protagonisti di «Farà giorno», la commedia di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi in scena ancora oggi al Troisi per la regia di Piero Maccarinelli. E si capisce già in partenza, dunque, che siamo di fronte a un testo molto ambizioso, che pretenderebbe di sviscerare in appena due ore di spettacolo compreso l’intervallo i proverbiali massimi sistemi (la morale, l’ideologia, la società…) e tutti i nodi cruciali di una certa storia italiana (il riformismo, gli opposti estremismi, lo scontro generazionale…).
Senonché, com’era facile prevedere, gli autori cadono spesso nella trappola della retorica e, in particolare, della retorica legata a un generico «buonismo» di sinistra, affibbiando a Renato il ruolo di un novello Socrate impegnato a rieducare Manuel per mezzo di una «maieutica» che sposa la falce e il martello col paternalismo. E si arriva, così, a battute come «Sono queste le barricate della vera resistenza, quelle della vita di tutti i giorni» e alla copia dell’«Unità» posata da Manuel sulla bara di Renato.
Ma basta. Il vero e unico motivo d’interesse offerto dallo spettacolo in questione – e non me ne vogliano i bravi comprimari, Alberto Onofrietti ed Elisabetta Femiano – è che vi compare, nel ruolo di Renato, un signore di novantaquattro anni che si chiama Gianrico Tedeschi. Non è soltanto il decano degli attori italiani, è un autentico monumento del nostro teatro. E in proposito davvero non occorre farla lunga.
Nella scena iniziale, Renato, che dorme profondamente, tiene per diversi minuti l’avambraccio e la mano tesi in fuori. E neppure il più piccolo tremito li agita, restano immobili come se fossero di una statua. E questo parla di un controllo del corpo perfetto, mentre il resto (i tempi, le pause, gli sguardi, i gesti) s’inscrivono, puramente e semplicemente, nella cosa imprescindibile che ha nome stile.
Vadano al Troisi, i tanti (troppi) attori napoletani che si perdono nella presunzione d’essere grandi.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 23 novembre 2014)

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *