NAPOLI – Come ho già scritto in varie occasioni, ci sono due modi d’intendere e mettere in scena «I giganti della montagna»: leggendo in quel copione monco il testamento di Pirandello, e quindi un semplice atto di fede e d’amore nei confronti del teatro; oppure individuandovi, sul piano ideologico, la contraddizione fra l’utopia di una sognata civiltà contadina e l’avvento inesorabile della società tecnologica, rappresentata per l’appunto dai «giganti».
Ma risulta oltremodo evidente che la prima delle due scelte è quella più superficiale, perché il vero tema del testo in questione è l’impossibilità del teatro in quanto pretesa illusoria di fondare (per mezzo della Forma) l’ordine in un mondo irrimediabilmente lacerato.
Quell’opera incompiuta, infatti, concluse – dopo «La nuova colonia», «Lazzaro» e «La favola del figlio cambiato» – il ciclo che Pirandello volle definire dei «Miti» e in cui al conflitto sociale s’era sostituita la fuga nell’inconscio: e non a caso i teatranti che arrivano da Cotrone intendono rappresentare per l’appunto «La favola del figlio cambiato», che dei «Miti» precedenti costituisce una sintesi dichiarata. Pirandello, insomma, tentava – vedi la battuta di Ilse riferita a quel testo: «Vive in me; ma non basta! Deve vivere in mezzo agli uomini!» – di trasformare in messaggio universale il proprio, privato, rifugiarsi nel limbo consolante della Terra Madre.
In altri termini, qui il conflitto non si determina fra i Buoni (la compagnia della Contessa) e i Cattivi (i «giganti»), ma, invece, è d’ordine interno, poiché Pirandello scontò il dissidio – che fu, del resto, di tutta la letteratura e di tutto il teatro della sua epoca – fra l’evasione e l’impegno, fra l’ipotesi puramente estetica e la presa di coscienza d’essere ormai in ritardo sui tempi. E quel dissidio non seppe comporlo, così come non aveva saputo condurre sino in fondo il processo intentato alla borghesia. Inoppugnabile, dunque, si rivela in proposito l’osservazione di Debenedetti: «Di questo dramma, ch’era stato intrapreso per chiudere il ciclo dei lavori teatrali, è quasi inevitabile pensare che non fu terminato perché non poteva esserlo».
Ma Roberto Latini – ideatore, regista e interprete de «I giganti della montagna – Radio Edit», l’allestimento che con la sua compagnia Fortebraccio Teatro presenta ancora stasera e domani pomeriggio nella Sala Assoli – di tutto questo non si preoccupa. Le sue note di regia si riassumono nel passo seguente: «”I giganti della montagna” è un classico che penso si possa permettere ormai il lusso di destinarsi ad altro possibile». E che cosa sia quell’«altro possibile» Latini ce lo spiega quando aggiunge che il suo scopo è quello di portare le parole di Pirandello («Le parole, le parole, le parole! sono queste il personaggio che ho scelto») «al di fuori di tempo e spazio».
Sono affermazioni e propositi non condivisibili. E per almeno due motivi, tanto semplici da rivelarsi ovvi. Per cominciare, non è possibile portare un testo, qualsiasi testo, «al di fuori di tempo e spazio», ossia trattarlo come un corpo estraneo alla cornice – storica, culturale, sociale, economica, politica e persino geografica – in cui nacque. Faccio al riguardo, come spesso ho fatto, l’esempio della «Commedia» dantesca. Si finisce completamente fuori strada se la s’interpreta sulla base del significato che le sue parole hanno oggi invece che sulla base di quello che avevano quando Dante le scrisse e che, specialmente, avevano nell’opera, la «Summa theologiae» di Tommaso d’Aquino, che costituì per Dante l’imprescindibile punto di riferimento teorico e, di più, la vera e propria, e decisiva, fonte dottrinale.
Inoltre (e vengo, così, al secondo dei due motivi che prendo in considerazione a proposito del dissenso da Latini) le parole – proprio perché separate dal testo e dal contesto e, dunque, considerate alla stregua di «personaggi» autonomi – finiscono per porsi come forme. Torniamo, dunque, alla pretesa di cui sopra, quella del teatro che s’illude di fondare l’ordine proprio per mezzo della Forma. E questo comporta la negazione assoluta di Pirandello e, quindi, del cardine filosofico su cui ruota l’intera sua opera. Giacché sappiamo che, per il Girgentino, «ogni forma è una morte».
Non rimane, allora, che la prova d’attore. Latini, servendosi di tre microfoni che producono effetti d’eco, di riverbero, di coro e di distorsione, dà voce a tutti i personaggi de «I giganti della montagna», da Cotrone a Ilse e alla Sgricia. E non v’è dubbio che, sul piano tecnico (soprattutto, per l’appunto, su quello del virtuosismo vocale), sia molto bravo ed eserciti, in particolare sugli spettatori più giovani, un fascino addirittura trascinante. Ma, con ciò, siamo giusto sul piano della dimensione puramente estetica da cui Pirandello intese affrancarsi. Non a caso lo spettacolo si chiude con l’aria «Una furtiva lacrima» cantata da Caruso. Quanto di più «ufficiale» si possa immaginare. E senza contare che il melodramma è la forma chiusa per eccellenza.
Enrico Fiore