Quel desiderio di baci che corre da Centocelle al Tiburtino

Da sinistra, Stefano Scialanga, Lorenzo Grilli, Josafat Vagni e Roberta Crivelli in un momento dello spettacolo «Ragazzi di vita», prodotto dal Teatro di Roma efd ora in scena al Bellini (le foto che illustrano questo articolo sono di Achille Le Pera)

Da sinistra, Stefano Scialanga, Lorenzo Grilli, Josafat Vagni e Roberta Crivelli
in un momento dello spettacolo «Ragazzi di vita», prodotto dal Teatro di Roma ed ora in scena al Bellini
(le foto che illustrano questo articolo sono di Achille Le Pera)

NAPOLI – È in scena al Bellini «Ragazzi di vita», l’adattamento scenico del primo romanzo pasoliniano prodotto dal Teatro di Roma su drammaturgia di Emanuele Trevi e per la regia di Massimo Popolizio. Ne ripropongo la recensione che scrissi nel novembre del 2016, dopo averlo visto all’Argentina di Roma.

Si tratta di uno spettacolo tutto di cuore (e, s’intende, è d’obbligo leggere «tutto de core»). Ma se dico questo, non bisogna dedurne che «Ragazzi di vita» indulga al sentimento o, peggio, al sentimentalismo: bisogna dedurne, al contrario, ch’è permeato dalla lucida coscienza e dalla fermissima determinazione con cui i suoi giovani interpreti s’appropriano i temi e la rivolta del «poeta corsaro». Però, prima di procedere con l’analisi dello spettacolo, è opportuno rievocare, per sommi capi, le ragioni e la struttura del romanzo, che, datato 1955, traduce al massimo grado, congiunti, tre dei principali «connotati» e «funzioni» che costituiscono la singolare peculiarità dell’artista Pasolini: il fervore populistico, l’afflato sottoproletario e lo sperimentalismo linguistico.
Infatti, lo sappiamo, il protagonista assoluto di «Ragazzi di vita» è il sottoproletariato urbano della Roma del secondo dopoguerra, rappresentato dal Riccetto e dai suoi compagni Marcello e Agnolo. E Riccetto incarna un vero e proprio paradigma: in lui si fondono la furbizia e un tenero abbandono alla vita, persino alla vita nei suoi aspetti più dolci. Come quando rischia di affogare tuffandosi nel Tevere per salvare una rondinella.
Poi, adottando la tecnica dell’inquadratura propria del cinema, il romanzo passa dalla zoomata alla panoramica: allargandosi a comprendere l’insieme dell’umanità, smarrita o violenta, di tutte le borgate romane, da Centocelle al Tiburtino. E l’acme narrativo e poetico lo determina il passaggio da quella violenza, spesso esibita, a un intimismo quale viene mostrato, per esempio, dalla vicenda di Genesio, che muore silenziosamente, e senza chiedere aiuto a nessuno, nel tentativo di traversare a nuoto l’Aniene sotto gli occhi dei due fratellini Mariuccio e (attenzione al nome!) Borgo Antico, mentre Riccetto scappa via per evitare guai e noie.

I «ragazzi di vita» al Lido di Ostia

I «ragazzi di vita» al Lido di Ostia. Lo spettacolo, su drammaturgia di Emanuele Trevi, è diretto da Massimo Popolizio

Ora, aggiungo subito che, nel mettere una simile materia sul palcoscenico, Popolizio non avrebbe potuto far meglio. La coralità è assicurata dalla scelta di mantenere spesso in vista gli attori che non partecipano all’azione; e, di pari passo, lo straniamento viene garantito dal fatto che gli attori medesimi sono, contemporaneamente, gl’interpreti e i narratori dei personaggi: fino, tanto per capirci, all’iperbole di quell’Amerigo che s’alza ad intervalli dal letto su cui giace cadavere per aggiungere i propri dettagli al racconto della sua morte scandito dagli altri.
Un’invenzione straordinaria, inoltre, è costituita dal personaggio del Narratore, che non si limita, per l’appunto, a raccontare, ma entra negli episodi che racconta: giusto in funzione di zoom o, meglio, con la funzione che ne «Il posto delle fragole» di Bergman instaura il personaggio del dottor Isak Borg, il quale, nei flashbacks relativi ai propri ricordi, entra da vivo, com’è adesso, addirittura confrontandosi, da vecchio, col se stesso giovane. E così il confronto a distanza fra noi e Pasolini – ecco il significato profondo di questo spettacolo – sfocia nella consapevolezza che solo nella «coabitazione» di passato e presente possono rintracciarsi l’anima e lo statuto della vita e della Storia.
Peraltro, non mancano, nell’allestimento di cui parliamo, i momenti francamente spettacolari: come quando, poniamo, gli attori diventano i ballerini di fila di una classica rivista sull’onda di «Serenata celeste» o quando Nadia emerge dal sottopalco grazie a un elevatore, sanguigna Venere «de noantri» nata dalla schiuma sudicia sul litorale di Ostia. E su tutto, infine, si leva – dolorante e, pure, consolante preghiera alla vita – la «Desiderio di baci» cantata non a caso dal «froscio», ossia dal «diverso» per definizione: «Non mi destar, quest’illusion d’amor fa tanto bene al cuor che chiede sol d’amar»…
Ma gran parte dei meriti di questo spettacolo bello e coinvolgente va attribuita, superfluo sottolinearlo, ai bravissimi diciannove interpreti: fra i quali occorre citare almeno Lino Guanciale (il Narratore) e, ciascuno di loro impegnato in più ruoli, Lorenzo Grilli («Er Riccetto»), Giampiero Cicciò («Er froscio»), Roberta Crivelli (Nadia), Michele Lisi (Amerigo) e Alberto Onofrietti (Genesio).

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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