Non basta il cuore di un camorrista a fare un camorrista

Vincenzo Salemme in un momento di «Con tutto il cuore», la sua nuova commedia in scena al Diana (le foto che illustrano questo articolo sono di Federico Riva)

Vincenzo Salemme in un momento di «Con tutto il cuore», la sua nuova commedia in scena al Diana
(le foto che illustrano questo articolo sono di Federico Riva)

NAPOLI – Il tratto distintivo di «Con tutto il cuore», la nuova commedia di Vincenzo Salemme che la Or.I.S. presenta al Diana, sta nel fatto che – lo dico subito: con molta efficacia – fonde le caratteristiche formali della più genuina tradizione farsesca napoletana (e, nella scia di quella, dell’avanspettacolo e del varietà) con uno degli aspetti decisivi del modo di lavorare di Salemme: la ripresa e lo sviluppo sistematici di elementi della commedia precedente.
Così, qui abbiamo da un lato gli scambi e la stroppiatura delle parole e, dall’altro, i personaggi di Capadondola, che, puteolano, si finge donna, indiana e badante, e dell’infermiere Giovanni, che sistematicamente capisce un’altra cosa rispetto a quello che gli è stato detto: i quali costituiscono, rispettivamente, evidenti ricalchi dei personaggi del cameriere Atzoka e del secondino che comparivano in «Una festa esagerata…!». Non a caso sono interpretati dagli stessi attori. È una formula collaudata, ormai un vero e proprio marchio di fabbrica, che perciò garantisce più che ampiamente il risultato, e sul piano della funzionalità drammaturgica e dal punto di vista del divertimento che procura. E il plot, s’intende, non è che la logica conseguenza di simili premesse strategiche.
In breve, c’imbattiamo in Ottavio Camaldoli, un mite (qualcuno dice che è fesso) professore di lettere che si trova all’ottantacinquesimo posto nella lista d’attesa per il trapianto di cuore e improvvisamente viene spostato al primo. Ma non sa che il cuore che riceve è quello di Antonio Carannante, detto «’o barbiere, core ‘e lione, argento vivo, ommo ‘e sustanza, palle d’acciaio, forbice e rasulo»: un camorrista morto ammazzato per mano di un altro camorrista, Pasquale Percuoco detto «Mangiacarne». E il trasferimento di Ottavio Camaldoli dall’ottantacinquesimo al primo posto della lista d’attesa è stato orchestrato dalla famiglia di Carannante, innanzitutto dalla madre Carmela, detta «la fondamentalista», perché ha individuato nel professore di lettere, ritenuto, per l’appunto, fesso più che mite, l’uomo adatto a vendicare «’o barbiere, core ‘e lione» eccetera eccetera ammazzando «Malacarne».
Inutile aggiungere che i soprannomi attribuiti da Salemme ai suoi malavitosi hanno lo scopo di mettere in campo, pur senza parere, una godibilissima parodia di «Gomorra». Così come il cognome attribuito al personaggio protagonista ha lo scopo di dare la stura a tutta una serie di equivoci di natura, per così dire, toponomastica. E per quanto concerne gli scambi di parole, eccovene qui di seguito un esempio probante sotto specie di un dialogo fra Ottavio e l’infermiere Giovanni.

Vincenzo Salemme con Antonella Cioli in un altro momento dello spettacolo

Vincenzo Salemme con Antonella Cioli in un altro momento dello spettacolo

Ottavio, riferendosi ad Antonio Carannante: «Era un assassino? Un killer?» – Giovanni: «Bravo! Chillo era…» – Ottavio: «Killer, non chillo era!!! Un sicario?» – Giovanni: «No, non fumava!». Con il codicillo, per fare altri due esempi, dello stesso Giovanni che – quando Ottavio rientra in casa, non trova più la libreria e commenta: «guarda là, sono rimaste solo le pile per terra…» – domanda: «Perché, andava a pile, la libreria?»; e che, ad Ottavio che gli ha detto: «Sono presbite…», ribatte: «Ah, vi hanno fatto preside?».
Ma, come al solito (e in ciò sta il pregio grande del suo teatro), Salemme prima ci fa ubriacare con le risate e poi ci riporta alla lucidità con una riflessione: messa in campo così, ancora senza parere, senza impancarsi, Dio ne scampi, a filosofo o moralista. Alla fine il capitano dei carabinieri Remotti dice ad Ottavio: «Qui tutti sono pronti a scommettere sulla sua identità, ma badi bene che la posta in gioco è molto alta. In conclusione, signor Camaldoli, lei è o non è “il barbiere”?». E Ottavio risponde: «No, mi dispiace. Io non sono “il barbiere””. Io sono Ottavio Camaldoli e faccio il professore!».
Posso tradurre tale riflessione coniando due aforismi, fra loro complementari. Questo il primo: non basta il cuore di un camorrista a fare un camorrista; e questo il secondo: è vero che al cuore non si comanda, ma non è il cuore che comanda. Comanda sempre il cervello, ci dice Salemme, il cervello che, se usato a dovere, ci conduce immancabilmente a scelte razionali, e nel chiuso del nostro animo e in rapporto al nostro stare nel mondo e nella società.
In quanto regista, infine, Salemme governa la sarabanda che ha generato in quanto autore con mano ferma e insieme leggera, ottenendo, così, il doppio risultato di evitare il rischio dei cali di ritmo e di mantenere sempre alto il tasso di godibilità dello spettacolo. E circa la sua prova d’attore, ovviamente nel ruolo di Ottavio Camaldoli, non mi resta che a mia volta ripetermi: le tirate a rotta di collo che sciorina l’una dopo l’altra, condite da accelerazioni vertiginose, sono assolutamente impareggiabili e irresistibili, e si spingono fino a una dimensione surreale, toccando addirittura le sponde dadaiste e futuriste.
Intorno al mattatore una compagnia ormai affiatatissima, che gli fa da «spalla» con precisione e perizia esemplari. Sono da citare, fra gli altri, almeno Antonella Cioli («la fondamentalista»), Antonio Guerriero (l’infermiere), Teresa Del Vecchio (Clelia, l’ex moglie di Ottavio) e Sergio D’Auria (Gigino Carannante). Ci si diverte, e parecchio, senza smettere di pensare. Di questi tempi, che volete di più?

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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