Morire a Düsseldorf indossando una maschera di cervo

Da sinistra, Walter Rey e Gustavo Saffores in un momento di «El bramido de Düsseldorf» di Sergio Blanco che ha aperto allo Storchi di Modena l'edizione 2019 del Vie Festival di Emilia Romagna Teatro (le foto che illustrano questo articolo sono di Narí Aharonián)

Da sinistra, Walter Rey e Gustavo Saffores in un momento di «El bramido de Düsseldorf» di Sergio Blanco
che ha aperto allo Storchi di Modena l’edizione 2019 del Vie Festival di Emilia Romagna Teatro
(le foto che illustrano questo articolo sono di Narí Aharonián)

MODENA – Il padre: «Con te non si capisce mai dove si va a parare». Il figlio: «Questo non è vero. In realtà, in questo testo abbiamo la certezza di essere a Düsseldorf». E ancora il padre: «È vero. Ma non è chiaro perché ci siamo venuti».
Ecco, si riassumono in queste tre battute il plot, la forma e il significato profondo di «El bramido de Düsseldorf (Il bramito di Düsseldorf)», il testo di Sergio Blanco che, per la regia dell’autore, ha aperto allo Storchi di Modena il Vie Festival di Emilia Romagna Teatro. Il franco-uruguaiano Blanco, autentica rivelazione della più recente drammaturgia, in Italia non era mai stato rappresentato. E constato subito che questo spettacolo colma la lacuna come meglio non si sarebbe potuto.
Partiamo dal plot. Vengono offerte tre ipotesi circa il motivo per cui il figlio, accompagnato da un padre in precarie condizioni di salute (infatti verrà ucciso da un infarto), si trova a Düsseldorf: deve partecipare all’inaugurazione di una mostra, per la quale ha scritto il catalogo, su Peter Kürten, il serial killer tedesco noto, appunto, col soprannome di «vampiro di Düsseldorf»; deve firmare il contratto come sceneggiatore di film porno per una delle più importanti case di produzione cinematografica europee; deve sancire la sua conversione al giudaismo attraverso la circoncisione nella famosa sinagoga della città. Ma non c’è alcun elemento, nel testo, che suffraghi una qualsiasi di queste tre ipotesi.
Esse s’intrecciano e sovrappongono, per richiamare, si capisce, i temi capitali della ricerca di Dio, del male, del sesso, dei limiti dell’arte (in particolare del teatro), della ferita lasciata dall’Olocausto e dell’integralismo islamico. Ma ciò che conta è che il padre nel quale c’imbattiamo è il padre in quanto tale e, contemporaneamente, il personaggio del padre nello spettacolo. E lo stesso è del figlio, manco a dirlo lo stesso Blanco. Di modo che il testo alterna i dialoghi diretti fra i due personaggi e il commento alle situazioni oggetto di quei dialoghi.
Insomma, qui si mette in scena non la vita, ma la riscrittura della vita ad oltranza. Basti a dimostrarlo la seguente battuta del figlio, che vale la pena di citare per intero: «Beh, vedete. Non è facile scrivere un testo teatrale per persone di una certa età. Devi pensare a battute corte, che siano facili da memorizzare. Non si può mettere molta logica nel discorso. Devi limitarti a frasi semplici e brevi. Facilitare il più possibile il lavoro dell’attore. Ogni mattina che mi sedevo a scrivere, dovevo sforzarmi di non dimenticarmi questo. Dovevo rendere la scrittura vecchia, con attenzione e delicatezza. Farla semplice. Credo sia stato l’unico modo in cui abbia saputo prendermi cura di mio padre in vita mia. Scrivere battute che non fossero difficili da memorizzare».

Da sinistra, ancora Walter Rey con Gustavo Saffores e Soledad Frugone in un altro momento dello spettacolo, diretto dallo stesso autore

Da sinistra, ancora Walter Rey con Gustavo Saffores e Soledad Frugone in un altro momento dello spettacolo

Speculari risultano, quindi, le repliche stizzose del padre, tipo «Ti stai trasformando in un cattivo drammaturgo» o «Se continui a scrivere così, è meglio che smetti di scrivere quest’opera». Sono (e qui, beninteso, Sergio Blanco mette in campo una buona dose d’autoironia) i sussulti di ribellione della vita, che si rifiuta d’essere privata della carne e ridotta alla pura immagine partorita dalla scrittura.
Ma il tutto, infine, si condensa nella seguente battuta che il padre rivolge al figlio/autore/regista: «Nei tuoi spettacoli fai sempre intendere molte cose e non si sa mai cosa sia vero e cosa non lo sia». Perché in questo consiste il pregio fondamentale de «Il bramito di Düsseldorf» e dello spettacolo che ne deriva: nella marcata ambiguità/ambivalenza dei loro snodi narrativi e nei continui slittamenti di senso, quasi dissolvenze incrociate, fra i diversi piani espressivi.
Si noti, al riguardo, l’alternarsi serrato di «non è vero», «è vero» e «non è chiaro» nelle battute citate all’inizio. E proprio su tale ambiguità/ambivalenza punta Blanco in quanto regista, ovvero sulla compresenza di elementi inequivocabili della realtà e della sottolineatura di quegli elementi attraverso l’intervento del loro opposto. Tanto a partire da quando, con la sala ancora illuminata e mentre gli spettatori prendono posto, scorrono orizzontalmente sul fondale, come i sottotitoli di un telegiornale, le notizie relative ai fatti attuali dell’economia, della politica e della cronaca, mentre i tre interpreti si abbandonano interminabilmente a una danza lieve e svagata da discoteca.
Lo stesso accade rispetto alle immagini, a cominciare da quelle relative alla deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. E in tal senso, per fare un esempio, è bellissima la sequenza in cui la produttrice di film porno, che ha appena finito di vantarsi delle cure che dedica ai corpi dei suoi attori, canticchia «Lili Marlene» sovrapponendosi a Marlene Dietrich, il volto della quale compare dietro di lei come in una serie di multipli alla Warhol. E lo spettacolo, infine, si esalta, in maniera toccante, nelle scene dedicate alla spiegazione del suo titolo.
Il figlio/Blanco dice di aver scelto quel titolo perché il cervo, sul punto di morire, emette un bramito particolare. Ed è chiaro che si riferisce al padre, che si sta spegnendo lentamente accarezzato dalle note del «Messia» di Händel. Infatti, a un certo punto gli mette sulla testa, per l’appunto, una maschera di cervo. E aggiunge che quando il cervo sta per morire, s’allontana, perché non vuole che i suoi familiari assistano, e se ne va in un bosco, in una radura piena di fiori che con il loro profumo confondono quei familiari e gl’impediscono di seguirlo. Mentre, per proprio conto, il padre dichiara che l’unica cosa che ricorda è il figlio che gli teneva la mano nell’ambulanza che lo portava all’ospedale.
Già, c’è anche della tenerezza, ne «Il bramito di Düsseldorf»: una tenerezza pudica, smarrita e pure tenace e vivificante. E in fondo è questa tenerezza che costituisce la cifra ultima, ma non la meno importante, di quest’allestimento. I cui interpreti – Walter Rey (il padre), Gustavo Saffores (il figlio/Blanco) e Soledad Frugone (tutti i personaggi femminili) – svolgono il loro compito, oltre che con grande perizia tecnica, con autentica (e giocosa e sofferta insieme) partecipazione umana.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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