Assunta Spina, la mosca che agonizza in un barattolo di vetro

Chiara Baffi in un momento di «Assunta Spina», in scena al San Ferdinando (le foto che illustrano questo articolo sono di Marco Ghidelli)

Chiara Baffi in un momento di «Assunta Spina», in scena al San Ferdinando
(le foto che illustrano questo articolo sono di Marco Ghidelli)

NAPOLI – È difficile mettere in scena «Assunta Spina» di Salvatore Di Giacomo. E nell’accingermi a commentare l’allestimento di quel dramma che lo Stabile di Napoli presenta al San Ferdinando per la regia di Pino Carbone, cerco di spiegare tale difficoltà, sia pur sommariamente, riassumendo quanto in varie occasioni ho avuto modo di osservare in proposito.
«Assunta Spina», dramma di passione e di morte, attiene, per ciò che riguarda i contenuti, allo scarto esistente fra il respiro vasto della vita e il ritmo necessariamente contratto del teatro (nel quale, è noto, Di Giacomo si proponeva di trasferire per l’appunto la verità della vita), mentre, sul piano formale, oscilla fra un realismo anche minuto e un lirismo fortemente connotato in senso letterario.
Di qui la contraddittorietà (ma anche il dualismo e l’ambivalenza) del personaggio di Assunta, che risulta profondamente vero pur essendo irriducibilmente calato in un contesto di menzogna: da un lato, quindi, Assunta funziona come il catalizzatore dei frammenti di vita e di società costituiti dagli altri personaggi (non a caso sarà la legge dell’«onor familiare» che le imporrà, a lei compagna infedele, di accusarsi dell’uccisione del proprio amante, Federigo Funelli, da parte del «fidanzato» Michele Boccadifuoco) e, dall’altro, si differenzia nettamente dai suoi «interlocutori» giusto sulla base del sentimento, perché, nel sentimento, Assunta addirittura s’annulla, quasi affogasse in un mare dagli abissi insondabili.
Sembra, in definitiva, che Assunta sia il sentimento, più che viverlo o subirlo: non si spiegherebbe, altrimenti, il trasporto – anch’esso contraddittorio – che nutre, in ugual misura, sia per Michele che per Federigo. E la sintesi di tutto quanto ho detto sinora sta nell’ultima scena: «IL BRIGADIERE (afferrandola per un braccio e sospingendo nella stanza la guardia Flaiano) Iammuncénne… (a Flaiano) A te… miéttete lloco! E nun te movere… (Trascina via Assunta. Mormorio che si dilegua. La vetrata resta schiusa. Fuori v’è il chiaro di luna. Si vede qualche curioso che spia nella camera. La guardia Flaiano resta impiedi. È pallido. Osa appena guardare di sfuggita il cadavere. Improvvisamente si riode nel lontano il suono della zampogna. Flaiano sospinge la vetrata e l’apre tutta. Il chiaro di luna inonda, fuori, la via. La campana della chiesa di San Domenico Maggiore squilla, triste e solenne. Flaiano, commosso, si scopre. La tela cade, lentamente».
Ebbene, mi sembra che Carbone illustri un simile quadro concettuale come meglio non si sarebbe potuto: a partire dalla scena di Luigi Ferrigno, che imprigiona l’azione in una scatola dalle pareti trasparenti, una sorta di teca illuminata all’interno da tubi di neon e collocata su un palchetto che ha ai lati gli appendiabiti da cui gli attori prelevano i costumi che indossano a vista e davanti un mare di fiori di plastica. E si tratta, certo, della sottolineatura della finzione teatrale, ma anche e soprattutto di mettere sotto vetro, o meglio sotto la lente di un microscopio, il sentimento totalizzante di Assunta.

Da sinistra, Renato De Simone, Alfonso Postiglione, Valentina Curatoli, Alessandra Borgia Rita Russo e ancora Chiara Baffi in un  altro momento dello spettacolo, diretto da Pino Carbone

Da sinistra, Renato De Simone, Alfonso Postiglione, Valentina Curatoli, Alessandra Borgia
Rita Russo e ancora Chiara Baffi in un altro momento dello spettacolo, diretto da Pino Carbone

Ora, che succede quando si osserva qualcosa al microscopio? Da un lato vediamo ingigantito ciò che stiamo esaminando e dall’altro ne constatiamo l’oggettualità inerte, che non significa nulla al di là di se stessa e, quindi, non suggerisce all’osservatore alcun moto di complicità. Ed è proprio quanto determina la regia di Carbone: fin dalla sequenza iniziale, che ci mostra Assunta, immobile e completamente vestita di bianco, come un segno d’insormontabile opposizione rispetto al contesto, il quale si riduce, per suo conto, a una scalcagnata tregenda farsesca orchestrata dall’usciere del tribunale Sgueglia, che strilla forsennato proprio mentre ripete ossessivamente il mantra «Nun avit’ ‘allucca’».
Si capisce, dunque, che il grande pregio di quest’allestimento – ad un tempo intelligente e coinvolgente – sta nell’estrema esasperazione degli opposti su cui si fonda, come ho accennato, il testo digiacomiano: abbiamo, per esempio, da un lato l’urlo animalesco che Assunta emette all’inizio e dall’altro il silenzio dolorante nel quale si chiude alla fine, quando della sua «confessione» resta appena il movimento delle labbra; e abbiamo, sempre per fare un esempio, da un lato quel vestito neutro di Assunta, del colore che nelle culture ancestrali è simbolo della morte, e dall’altro i costumi indossati dagli altri personaggi, tutti fantasiosi e coloratissimi.
Del resto, è chiaro e dichiarato che – nell’ambito di un sistema segnico d’impronta espressionistica – la passione di Assunta, con tutto il suo corredo di connotazioni retoriche, va ad arenarsi e a sciogliersi, per l’appunto, nella dimensione della morte: vedi, ancora a titolo d’esempio, la marcia funebre che si sente in apertura e in chiusura dello spettacolo, «Una lacrima sulla tomba di mia madre» di Amedeo Vella. È quella che, non a caso, si sentiva anche in «Amarcord» di Fellini, un film fatto di fantasmi; così come non a caso si sentiva anche in «Morte a Venezia» di Visconti «’A risa» di Cantalamessa che qui Carbone mette in bocca al macchiettista Epaminonda Pesce. E tanto senza dimenticare che – altre invenzioni strepitose – nella circostanza la guardia Flaiano è presente solo nella forma del mezzo busto di un fantoccio appoggiato su una sedia e che l’uccisione di Federigo Funelli da parte di Michele Boccadifuoco viene ironicamente ripetuta più volte, nell’eco di ciò che avveniva in «Isso, essa e ‘o malamente», la celebre parodia della sceneggiata di Angelo Fusco, Corrado Iannuzzi e Vittorio Marsiglia.
Una precisa e oltremodo significante coerenza si stabilisce poi fra l’impianto scenico di cui ho detto e i costumi di Annamaria Morelli, le luci di Cesare Accetta e le musiche a cura di Marco Messina e Sacha Ricci. E infine, circa gl’interpreti, aggiungo che molto giustamente ed efficacemente adottano nel complesso la chiave della frenesia: perché i loro personaggi sanno che, se si fermano anche solo un attimo, gli precipita addosso la consapevolezza terribile di stare nel mondo.
In particolare, è ammirevole la prova di Chiara Baffi: quando striscia con le mani sulle pareti della sua scatola/prigione, rimanda perfettamente all’idea centrale che di Assunta Spina trasmette la regia, quella di una mosca che agonizza dentro un barattolo di vetro, priva di qualsiasi contatto con l’esterno; ed esemplari sono le sue controscene, al pari della «dissolvenza incrociata» che, durante il primo incontro a casa sua con Federigo Funelli, la vede passare in rapidissima successione dal disgusto al coinvolgimento.
Fra gli altri – insieme con un Claudio Di Palma che scolpisce con una misura da antologia il fascio di nervi allo scoperto in cui consiste Michele Boccadifuoco – citerei almeno Alfonso Postiglione (un mefistofelico Federigo Funelli) e Alessandra Borgia (una tormentata Donna Emilia Forcinella). E per concludere, non ho alcuna difficoltà a dire che quest’allestimento di «Assunta Spina» mi pare il migliore fra gli spettacoli di produzione esclusiva dello Stabile di Napoli che ho visto nella stagione in corso: perché, è ovvio, si pone contro il teatro scolastico che quello Stabile persegue di solito.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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