Adesso, con Ranieri, Trepliòv fa lo chansonnier

Massimo Ranieri, il Figlio, in un momento de «Il gabbiano», in scena al Diana (le foto che illustrano questo articolo sono di Manuela Giusto)

Massimo Ranieri, il Figlio, in un momento de «Il gabbiano», in scena al Diana
(le foto che illustrano questo articolo sono di Manuela Giusto)

NAPOLI – Come sa chi ha la bontà e la pazienza di seguirmi, io, prima di andare a vedere uno spettacolo, ne leggo e studio il testo. Lo faccio, innanzitutto, perché ritengo che sia un preciso e inderogabile dovere di ogni critico teatrale degno di questa qualifica; e, poi, per il rispetto che meritano il pubblico che assisterà a quello spettacolo, il lavoro di quanti lo hanno realizzato (autore, regista, attori), i lettori che vorranno dedicare qualche minuto alla mia recensione e – last but not least – la mia dignità professionale, che sarebbe pesantemente offesa se io non mi mettessi in grado di valutare uno spettacolo sulla base della conoscenza il più possibile approfondita dei suoi elementi costitutivi, primo fra i quali per l’appunto il testo.
Ma non ho potuto leggere il copione de «Il gabbiano», lo spettacolo che il Diana e Rama 2000 presentano nella sala di via Luca Giordano e che Giancarlo Sepe firma nella doppia veste di adattatore del capolavoro cechoviano di cui nel titolo e di regista. E non ho potuto leggerlo perché, cinque giorni prima del debutto (in pratica era una «prima» nazionale, dopo qualche recita di rodaggio al Mancinelli di Orvieto), mi è stato detto che «si preferiva non darlo» in quanto «aveva subito varie modifiche in prova e non c’era il definitivo». Cinque giorni prima del debutto. E testimonio – io che vado a vedere spettacoli in tutta Italia e anche all’estero – che una cosa del genere poteva succedere solo a Napoli. Ma su questo problema conto di svolgere una riflessione più ampia in altra sede. E passo, quindi, allo spettacolo di Sepe in sé.
In breve, Sepe s’inventa un figlio anziano oppresso dal rapporto tormentato con sua madre e che – nel corso di un sogno o, piuttosto, di un incubo – entra ne «Il gabbiano» di Cechov, confrontandosi con i personaggi di quella commedia: a partire, naturalmente, da un Trepliòv che vede come un se stesso giovane. Dunque, sono fantasmi, i personaggi in questione. Infatti, gli vengono incontro uscendo da quinte nere (su cui, per rimarcarne la proverbialità, sono scritti a lettere cubitali i loro nomi) fra nuvole di fumo che richiamano la nebbia di un cimitero di Ossian. E poiché il figlio anziano adotta talune delle battute che essi pronunciano nel testo originale di Cechov, e arriva, ripeto, a identificarsi con Trepliòv, il quale, lo sappiamo, si uccise, ne consegue che anche lui viene esibito come fantasma.
D’accordo, l’invenzione appare tortuosa sino ai limiti dell’incomprensibile. Ma diventa immediatamente semplice, e addirittura trasparente, se pensiamo che – trattandosi di varare un allestimento de «Il gabbiano» con Massimo Ranieri protagonista – bisognava superare l’ostacolo costituito dall’«incompatibilità» dello stesso Ranieri, che ormai s’avvia verso i settant’anni, con un personaggio, appunto Trepliòv, che è poco più di un ragazzo. Senonché, superato quell’ostacolo con il lambiccato stratagemma partorito da Sepe, resta la conseguenza che del capolavoro cechoviano non sopravvivono che brani sparsi confusamente riproposti.

Massimo Ranieri in un altro momento dello spettacolo, ideato e diretto da Giancarlo Sepe

Massimo Ranieri in un altro momento dello spettacolo, ideato e diretto da Giancarlo Sepe

È grave, in particolare, che vengano quasi completamente cancellati (rivivono solo in qualche battuta ininfluente) i personaggi di Sòrin, il fratello di Irina Arkàdina che rimpiange continuamente la vita che gli hanno negato i ventotto anni trascorsi da consigliere di stato, e di Dorn, che avrebbe volentieri barattato la carriera di medico e di donnaiolo con il soffio creativo degli artisti. È grave perché, nell’ambito di un testo fortemente simbolico, rappresentano l’incarnazione del tema centrale non solo de «Il gabbiano», ma dell’intero teatro di Cechov: la vita ridotta nel limbo di un presente ineffettuale, schiacciato fra la nostalgia di un passato che non può tornare e l’attesa di un futuro vago e improbabile in cui, peraltro, non si crede neanche più.
Che cosa si salva, allora, dell’allestimento di cui parliamo? Si salva la dimensione musicale, del resto annunciata, anche qui in termini simbolici, dal pianoforte irrealmente largo che campeggia al centro della scena di Uberto Bertacca: ovvero, in termini concreti, si salva la splendida prova che Massimo Ranieri – giusto il sottotitolo «à ma mère» – fornisce trasformando Trepliòv in una perfetta riedizione del classico chansonnier parigino di un tempo. Da «Avec le temps» di Ferré a «Je suis malade» di Serge Lama, da «Hier encore» di Aznavour a «Et maintenant» di Bécaud, da «La foule» di Cabral portata al successo da Edith Piaf a «La chanson des vieux amants» di Brel, si sgrana un autentico rosario di perle, che mette in gara vertiginosa fra loro il virtuosismo canoro e la raffinatissima calibratura del gesto. In ossequio all’immenso Sergio Bruni, secondo il quale «il cantante non si deve solo sentire, si deve anche vedere».
Degli altri citerei appena Caterina Vertova, per la professionalità (ma non più di quella) con cui disegna il personaggio di Irina Arkàdina. In conclusione, mi concedo una sommessa domanda: non era meglio che Ranieri si limitasse a riproporci i classici della canzone d’autore francese per mezzo di un vero e proprio concerto?

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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