Un Pulcinella pentito che si lava dalla cenere. E pone domande

Massimo Andrei in un momento di «E pecché? E pecché? E pecché? Pulcinella in Purgatorio», in scena al San Ferdinando (le foto che illustrano l'articolo sono di Marco Ghidelli)

Massimo Andrei in «E pecché? E pecché? E pecché? Pulcinella in Purgatorio», in scena al San Ferdinando
(le foto che illustrano l’articolo sono di Marco Ghidelli)

NAPOLI – Quanti ne abbiamo visti, di spettacoli che avevano come protagonista Pulcinella? Ma questo che lo Stabile di Napoli presenta al San Ferdinando – «E pecché? E pecché? E pecché? Pulcinella in Purgatorio», ideazione e regia di Andrea De Rosa, drammaturgia di Linda Dalisi – è assolutamente originale: giacché trae il suo significato e la sua efficacia, che non sono trascurabili, dal fatto che nella circostanza il protagonista non è Pulcinella, ma, giusto quel titolo, il coacervo inestricabile delle domande capitali o semplicemente oziose (da «perché temiamo la morte?» a «perché le mele sono rosse?») che la fatidica Maschera, piegata al ruolo di cartina di tornasole simbolica, riscontra lungo il tempo nella filosofia, nella fisica, nella matematica, nella musica, nel teatro e, più modestamente, nella chiacchiera quotidiana.
Non a caso, qui Pulcinella si moltiplica. Abbiamo un Pulcinella Uno, un Pulcinella Due, un Pulcinella Tre, un Pulcinella Quattro e un Pulcinella Cinque. E le didascalie ci dicono che all’inizio, intorno a un tombino sorvegliato dalla guardiana Assuntina, «Pulcinella Due trascina un carrettino pieno di libri, cimeli, fotografie, costumi di scena, parrucche», «Pulcinella Tre, in abiti del ‘700, sta seduto su una vecchissima poltrona», «Pulcinella Quattro indossa la maglia di Maradona e stringe a sé un vecchio pallone» e «Pulcinella Cinque si muove ossessivamente e meccanicamente come una marionetta». Mentre Pulcinella Uno compare, debitamente smarrito, a chiedersi e a chiedere dove mai si trovi.
Si capisce, quindi, che la faccenda diventa subito seria. Quel tombino, in tutta evidenza, è la soglia dell’Aldilà. E la metafora si giustifica addirittura sul piano scientifico: perché, lo sappiamo, tecnicamente parlando Pulcinella è una «maschera anima di morto». Infatti, adotta movimenti da gallinaceo; e nelle culture ancestrali la gallina è, per l’appunto, un simbolo dell’oltretomba.
Per suo conto, poi, Assuntina rimanda, con altrettanta evidenza, all’angelo «portinaio» che compare nel canto IX del Purgatorio dantesco: ovvero nel canto che, attenzione, contiene la descrizione del rito della confessione. Al riguardo i versi 109-111 non potrebbero essere più espliciti: «Divoto mi gittai a’ santi piedi; / misericordia chiesi e ch’el m’aprisse, / ma tre volte nel petto pria mi diedi». E l’angelo, racconta Dante nei versi 112-114, «Sette P ne la fronte mi descrisse / col punton de la spada, e “Fa che lavi, / quando se’ dentro, queste piaghe” disse».
Le sette P (P, s’intende, è l’iniziale della parola peccato) sono il simbolo dei sette peccati capitali che verranno espiati e cancellati nelle sette cornici del Purgatorio. E a tanto si collega la battuta che nel suo penultimo intervento pronuncia Assuntina, quando colloca l’una accanto all’altra, senza virgole a separarle, le parole «Pulce Petruccio Petrusino Padreterno Paliatone Pulcino e Pecché», sottolineando che le loro iniziali sono «tutte maiuscole». E come se non bastasse, quando nello stesso intervento parla di «sangue imperfetto sottratto alla mensa degli organi», Assuntina parafrasa i versi 37-42 del canto del Purgatorio, il XXV, in cui Stazio spiega l’infusione nell’uomo dell’anima razionale: «Sangue perfetto, che poi non si beve / da l’assetate vene, e si rimane / quasi alimento che di mensa leve, / prende nel core a tutte membra umane / virtute informativa, come quello / ch’a farsi quelle per le vene vane».
Ma, naturalmente, quella di Dante è solo una delle numerosissime e variegatissime citazioni che tramano il testo della Dalisi: si va, poniamo, da «Dei sepolcri» di Foscolo a «Totòtruffa ’62» di Mastrocinque, da «Orfeo, Euridice ed Hermes» di Rilke a «Pulcinella creduto Donna Dorotea pezza a ll’uocchio» di Petito, da «La Repubblica» di Platone a «Palombella rossa» di Moretti; senza contare, sempre per fare qualche esempio, «Amleto» di Shakespeare, «De gli eroici furori» di Bruno, «Davanti alla legge» di Kafka e «Aspettando Godot» di Beckett. E non meno variegata è la «colonna sonora», che allinea «Giulio Cesare» di Händel, «Pulcinella vendicato» di Paisiello, «La serenata di Pulcinella» di Cimarosa e la «Polichinelle» che fu cantata da Edith Piaf.

Da sinistra, Rosario Giglio e Isacco Venturini in un altro momento dello spettacolo, scritto da Linda Dalisi e ideato e diretto da Andrea De Rosa

Da sinistra, Rosario Giglio e Isacco Venturini in un’altra scena dello spettacolo, ideato e diretto da Andrea De Rosa

Mi affretto ad aggiungere, però, che non si tratta di sterile esibizionismo culturale. Si tratta, invece, di una sapiente strategia che, mettendole su un piano di pari dignità, utilizza tutte insieme quelle fonti per trasformarle nella vera e propria bussola che guida al cuore tematico (e, assai di più, ideologico) dello spettacolo. Che consiste in una dichiarazione esaustiva di Pulcinella Due. Dopo aver constatato che «Non funziona… Non funziona più» e che, in ogni caso, «Non basta più», commenta: «Aggio pigliato ‘a penna ‘nmano, e aggio scritto pagine e pagine pe’ tenta’ ‘e celebra’ almeno in minima parte ‘a grandezza toja, Teatro. Ma si tu si’ grande, io so’ piccerillo. E tengo ‘a guerra ‘n capo e ‘o scuro ‘n pietto si cerco ‘e fa ‘ncuntra’ ‘o secolo passato cu chillo ‘e primma e cu chillo ‘e doppo. Niente. Nun se parlano. E si se parlano s’azzuffano come cane e gatta». E conclude, rifacendosi a una frase di Gustav Mahler: «’A tradizione serve pe’ cuntrulla’ ca ‘o ffuoco nun se stuta, e no pe’ s’addenucchia’ in adorazione annanz’a cennere. Chesta è cennere…è cennere!».
Ora, debbo proprio far notare che per l’appunto di color cenere, a differenza di quella bianchissima degli altri angeli, è la veste dell’angelo «portinaio» di Dante? Il colore cinereo è un colore liturgico, allude alla caratteristica del sacramento penitenziale. Ed ecco, allora, che siamo di fronte a una prova eclatante della straordinaria coerenza interna che presiede allo spettacolo di Andrea De Rosa e Linda Dalisi. Perché qui c’imbattiamo in un Pulcinella che si lava dalla cenere di una tradizione anchilosata, si pente, giusto, dei mille e invalidanti malintesi da quella partoriti e ritrova la coscienza d’essere un segno d’alterità.
È un Pulcinella che, lo abbiamo visto, continuamente si pone e pone domande. Fino a sbottare, come Pulcinella Cinque: «Avimm’a spera’? Ce avimm’a dispera’? Ce avimm’a esaspera’? Avimm’a esala’? Avimm’a evapora’? Avimm’a scorpora’? Quanno fernesce? Comme se jesce? Comme se jesce? Comme se jesce?». E a consolarlo – con quello che è il messaggio complessivo dello spettacolo – interviene ancora una volta Assuntina, davvero il personaggio-chiave: «Il domandare, il domandare ha senso, non la risposta. Io non so qual è la verità, ma so che ha la forma di una domanda, è la domanda che conta».
Non meno decisivo, a costituire un altro dei molti pregi di «E pecché? E pecché? E pecché? Pulcinella in Purgatorio», appare poi l’aspetto del linguaggio. Linda Dalisi, come corrispettivo di quello con la tradizione malintesa di cui sopra, mette in campo un drastico scontro del dialetto nobile di un tempo con la sua «minimizzazione» odierna. Sicché il dialetto che appartenne alle lavandaie del Vomero e a Viviani può spingersi persino ad appropriarsi «Dei sepolcri». Di modo che, per esempio, il passo foscoliano «[…] ove più il Sole / per me alla terra non fecondi questa / bella d’erbe famiglia e d’animali, / e quando vaghe di lusinghe innanzi / a me non danzeran l’ore future» diventa «[…] quanno ‘stu bello sole nun farà cchiù / gravida ‘sta terra e ‘stu popolo ‘e frasche e bestiole, / o quanno annanz’a me nun faranno cchiù ‘a quadriglia / tutte l’ore future». Mentre godibilissima risulta, e sia detto ancora a titolo d’esempio, la sequenza pressoché interminabile delle varianti in cui s’incarna la percossa: «carocchia», «fecozza», «spetturone», «secuzzone», «alliccamusso», «papagno», «sciamarrone, «zengarda», «manasmerza», «perepeccia», «cagliosa», «panesiglio», «annicchio» e così via «palianno».
Già, questo è anche uno spettacolo divertente, oltre che acuto. E dal canto suo, la regia di De Rosa connota l’allestimento con una serie di segni, tanto forti quanto pertinenti, che si pongono, ad un tempo con inventiva e precisione, in perfetto accordo con l’impianto drammaturgico disegnato dalla Dalisi. Ne elenco qui di seguito i principali.
Prima, mentre gli spettatori si sistemano nei propri posti, e poi, per tutta la durata dello spettacolo, stanno lì ad abbagliare potenti batterie di proiettori disposte sui tre lati dello spazio scenico, a simboleggiare, oltre ogni dubbio, la retorica accecante che scaturisce, appunto, dal fraintendimento miope (o, peggio, utilitaristico) della tradizione. E al centro dello spazio scenico c’è la pedana, circondata dal nastro bianco e rosso dei lavori in corso, che costituisce il regno di Assuntina.

Marco Palumbo, con la maglia del Napoli, che si stringe al petto il pallone di Maradona

Marco Palumbo, con la maglia del Napoli, che si stringe al petto il pallone di Maradona

Quella pedana, dunque, è anche e soprattutto un altare, e di conseguenza Assuntina è anche e soprattutto una sacerdotessa che celebra un rito: un rito – che allude alla presa di coscienza da parte della ragione e di una cultura d’impronta storica – da cui i Pulcinella in campo, fantasmi di un’epoca ormai quasi irriconoscibile, vengono sistematicamente esclusi. E infatti, ogni volta che tentano di salire sulla pedana, ne vengono subito scacciati dal suono lacerante di una sirena d’allarme. Mentre le luci dei proiettori calano, altrettanto sistematicamente, quando Assuntina pronuncia (in italiano!) i suoi discorsi «seri», di fronte ai quali i Pulcinella sono costretti a togliersi la maschera.
Quei Pulcinella, cioè, sono costretti a riconoscersi come puri reperti. E allora le citazioni di cui sopra (a partire da quelle relative a Petito) appaiono davvero come i relitti di una splendida nave, affondata chissà dove, che il mare del tempo trascina sull’ultima spiaggia della nostalgia. Un’ultima spiaggia (le tavole del palcoscenico sono cosparse di sabbia o, più esattamente, di qualcosa che può sembrare, manco a dirlo, cenere) su cui, perciò, accade che i segni si confondano, trascolorino l’uno nell’altro come in anarchiche dissolvenze incrociate. Vedi quel pallone di Maradona che, proprio a guisa dell’incrostazione su uno scoglio, reca su di sé il teschio di Yorick.
Eccellenti – e adeguatamente assistiti dalle scene e dai costumi di Simone Mannino e dalle luci di Pasquale Mari – risultano infine gl’interpreti: Massimo Andrei (Pulcinella Due), Maurizio Azzurro (Pulcinella Cinque), Anna Coppola (Assuntina), Rosario Giglio (Pulcinella Uno), Marco Palumbo (Pulcinella Quattro) e Isacco Venturini (Pulcinella Tre). Riescono persino a rendere gli stilemi della Commedia dell’Arte, ma come una malinconica coazione a ripetere. E insomma, questo – ciò che oggi accade rarissimamente – è uno spettacolo che va al di là di se stesso.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *