Gruppo di famiglia in un interno antieduardiano

Laura Mazzi e Alessandro Bay Rossi in un momento di «Per il tuo bene» di Pier Lorenzo Pisano (le foto che illustrano l'articolo sono di Luca Del Pia)

Laura Mazzi e Alessandro Bay Rossi in un momento di «Per il tuo bene» di Pier Lorenzo Pisano
(le foto che illustrano l’articolo sono di Luca Del Pia)

MODENA – Riporto la recensione, pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», dello spettacolo «Per il tuo bene».

Leggendo «Per il tuo bene» – il testo del ventottenne napoletano Pier Lorenzo Pisano vincitore della dodicesima edizione del prestigioso Premio Riccione «Pier Vittorio Tondelli» e che è stato presentato da Emilia Romagna Teatro, in «prima» nazionale, nel Teatro delle Passioni di Modena – ho subito pensato per un verso a Manlio Santanelli e per l’altro a Fausto Paravidino: a Santanelli per quanto riguarda il tema qui affrontato, la famiglia, e a Paravidino per quanto concerne il tono con cui quel tema viene svolto.
Ricordo che – nello scritto «L’ineffabile piacere di amarlo e tradirlo, nonostante tutto», pubblicato in occasione del centenario della nascita di Eduardo De Filippo – Santanelli affermò: «Pur riconoscendo a Eduardo una sensibilissima capacità di scovare in anticipo, all’interno della famiglia, i punti di frattura responsabili del suo successivo crollo, confesso che non mi sento affatto come lui animato dalla missione di salvare un’istituzione, la famiglia per l’appunto, che a mio modesto avviso oggi si presenta come una delle aggregazioni più patogene della vita sociale»; e riconsidero, insieme, la scrittura, impietosa fino ad essere crudele e venata di un gelido sarcasmo, che Paravidino ha adottato nel trattare, giusto, le odierne dinamiche sociali e famigliari.
Ebbene, proprio la patologia e il sarcasmo costituiscono i tratti distintivi del testo di Pisano: che – muovendosi nella scia dei due drammaturghi citati, fra i più significativi degli ultimi anni – ne reinventa i motivi e le forme con intelligenza e precisione non disgiunte dall’agilità espressiva. A partire dal personaggio del figlio che torna brevemente a casa, ingaggia un duello senza esclusione di colpi con la madre e, così, rimanda al figlio che compare nella commedia di Santanelli intitolata, per l’appunto, «Regina Madre».

Pier Lorenzo Pisano

Pier Lorenzo Pisano

Per l’esattezza, Pisano mette in campo, accanto a quelli della madre e del figlio, anche i personaggi di un padre (che, però, non appare mai, se ne parla soltanto), di un fratello, di uno zio, di una nonna e di una nonna paterna. C’imbattiamo, dunque, in uno spaccato famigliare paradigmatico. Ma l’interno che lo ospita è un microcosmo concentrazionario murato in un’immobilità scandita dalla tautologia, dal paradosso e dagli stereotipi. E non a caso, le uniche aperture verso l’esterno sono le sporadiche apparizioni di una ragazza, che intrattiene col fratello un rapporto problematico, e di uno sconosciuto, il quale, sempre non a caso, si presenta dichiarando d’essere «circondato da una bolla di estraneità».
Del resto, la tautologia, in quanto spia d’allarme dell’immobilità, si manifesta già in apertura del testo, ovvero in posizione fortemente icastica, con le primissime battute della madre («Io ho un figlio, cioè sono una madre») e del figlio («Io sono un figlio. Cioè ho una madre»). E a sottolineare ulteriormente quell’immobilità interviene, poi, un effetto d’eco determinato dal fatto che, spesso, le battute di un personaggio riprendono quelle di un altro personaggio o quelle pronunciate prima dallo stesso personaggio.
Tale effetto d’eco serve, d’altronde, a sottolineare anche la sostanziale incomunicabilità esistente fra i personaggi in questione. Vedi, al riguardo, la seguente battuta del figlio: «Mia madre non chiama mai. Qualche volta mi scrive per sapere se ho ricevuto i messaggi precedenti: ormai tutti i suoi messaggi sono una catena di messaggi che si interrogano sull’effettiva ricezione del messaggio di prima fino a risalire al messaggio primigenio che si è perso quando i cellulari avevano ancora i tasti».
È una battuta che fa il paio con quella della ragazza che, quando il fratello le chiede: «Mi lasci il tuo numero?», risponde: «Io…sì…sì, dai. Aspetta. Ecco, tre, tre nove, sedici, quaranta, milleduecentottantadue, asterisco, l’anno dell’assassinio di Lincoln, due, due due, due, radice di due, quattro per sedici, smile…». Ed entrambe, queste due battute, sono, per di più, un esempio dell’impagabile ironia (non di rado spinta fino alla comicità) che sovrintende, in funzione di efficacissimo straniamento, alla scrittura di Pisano. Mentre lo straniamento medesimo viene potenziato anche per mezzo d’improvvise fughe dalla logica del discorso in atto. Come avviene, sempre per fare un esempio, quando, parlando di delfini, alla ragazza che gli ha detto che da piccola aveva un peluche a forma per l’appunto di delfino, il fratello risponde: «Anch’io» e, alla replica della ragazza: «Avevi un peluche?», conclude: «Sì. A forma di orso».

Ancora Alessandro Bay Rossi e Marina Occhionero in un altro momento dello spettacolo, prodotto da Emilia Romagna Teatro

Ancora Bay Rossi e Marina Occhionero in un altro momento dello spettacolo, prodotto da Emilia Romagna Teatro

Sentite, poi, un esempio a proposito degli stereotipi di cui sopra: – Nonna: «Io sono una nonna. Una madre in pensione» – Fratello: «Io sono un nipote. Sono viziato e felice» – Figlio: «Io sono il primo nipote. Sono molto viziato e felice» – Nonna: «Come una bustina di tè: sono una madre diluita e con le zollette di zucchero». Ma subito arrivano, contro ogni stereotipo consolatorio, la demitizzazione e la demistificazione più lucide e intransigenti che si possano immaginare. Dice il fratello: «Ogni volta che mi raccontano cose che ho fatto da piccolo con i nonni, faccio sempre finta di ricordare, ma non è vero. Non ricordo nulla. Però ho una montagna di false memorie, mi hanno ricostruito un passato meraviglioso, devo essere stato una persona eccezionale tra i quattro e i nove anni».
Come si vede, tra i numi tutelari scelti da Pier Lorenzo Pisano bisogna mettere, insieme con Santanelli e Paravidino, anche l’ineludibile e mai troppo lodato Ibsen, con la sua illuminata riduzione del presente a un processo intentato al passato. E di conseguenza, un velo di malinconia si stende sulla vita ineffettuale di questa famiglia discorde, quella vita che, poniamo, si riduce alla delizia al limone che in pasticceria una signora soffia alla madre. E il finale è aperto, si capisce. Il fratello chiede alla ragazza: «Vuoi fare una famiglia?», la ragazza risponde: «No», aggiungendo: «Andiamo avanti e vediamo. Per ora va bene così», e il fratello riassume: «Al massimo finisce che ci odiamo». Forse c’è una speranza e forse non ce n’è alcuna.
Per ciò che infine riguarda lo spettacolo in sé, mi limito a constatare che la regia, dello stesso autore, illustra quanto sopra con attenzione pari alla leggerezza, e che altrettanto fanno gl’interpreti: Laura Mazzi (la madre/la nonna), Marco Cacciola (lo zio/lo sconosciuto), Edoardo Sorgente (il figlio), Alessandro Bay Rossi (il fratello) e Marina Occhionero (la ragazza). E piuttosto s’impone una postilla.
«Per il tuo bene» ha vinto il Premio Riccione «Pier Vittorio Tondelli» nel 2017. È stato rappresentato, tradotto in francese, al Théâtre Ouvert di Parigi e in questa versione ha aperto il Festival di Avignone dell’anno scorso, nel programma «Forum des Nouvelles Écritures Dramatiques Européennes. E tradotto anche in inglese e in rumeno, sarà prodotto a maggio dal Teatrul Odeon di Bucarest. Come mai a Napoli non se n’è accorto nessuno?

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzgiorno», 11/1/2019)

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *