In scena con de Giovanni il «commissario» Ibsen

Claudio Di Palma in un momento del suo adattamento de «Il senso del dolore» di Maurizio de Giovanni (la foto è di Marco Ghidelli)

Claudio Di Palma in un momento del suo adattamento de «Il senso del dolore» di Maurizio de Giovanni
(la foto è di Marco Ghidelli)

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno» e relativo ai romanzi di Maurizio de Giovanni centrati sul personaggio del commissario Ricciardi.

In vista del debutto al San Ferdinando dell’adattamento de «Il senso del dolore» firmato da Claudio Di Palma e prodotto dallo Stabile di Napoli, mi son ricordato – mentre tornavo in treno da Milano, dove al Piccolo Teatro Studio Melato avevo visto il nuovo spettacolo di Mario Perrotta intitolato, guarda caso, «In nome del padre» – di una mia convinzione circa, per l’appunto, i romanzi di Maurizio de Giovanni centrati sul personaggio del commissario Ricciardi.
La convinzione, infatti, è che ad essi presieda proprio un nume tutelare paterno. Si chiama Henrik Ibsen. E per cercar di dimostrare la sua influenza sui romanzi in questione, parto per l’ennesima volta dalla decisiva analisi di Szondi: «In Ibsen il problema è quello di rappresentare il passato, vissuto interiormente, in una forma letteraria che conosce l’interiorità solo nella sua oggettivazione, e il tempo solo nel suo momento di volta in volta presente; ed egli lo risolve inventando situazioni in cui gli uomini seggono a giudici del loro passato ricordato, e lo portano così alla luce aperta del presente».
Così, nei drammi del Norvegese la vita viene continuamente evocata e invocata: come desiderio fanciullescamente esibito, come stanca abitudine o, infine, come inutile condanna; ma poi, in realtà, al posto della vita s’accampa un presente che, per ripetere ancora le parole di Szondi, «si limita a essere un pretesto per l’evocazione del passato». E il futuro stesso resta affidato all’improbabile ipotesi del «meraviglioso», di un «prodigio» in cui, peraltro, non si crede più.
Ebbene, il presente ineffettuale di Ibsen è lo stesso del commissario Ricciardi di de Giovanni. Perché il presente di Ricciardi si riduce, per l’appunto, al processo intentato al passato. Ricciardi, lo sappiamo, vede i morti, quelli di morte violenta, e ne sente le parole che pronunciarono un attimo prima di morire. Sono parole che, a loro volta, istruiscono un processo contro le cause – non importa se accidentali o dolose – della morte di chi le pronuncia. E se Ricciardi può (di continuo) rivedere quei morti e risentire le loro ultime parole, significa che egli stesso appartiene alla morte. Non a caso, dunque, la sua vita coincide con l’indagine accorata, e onnivora e totalizzante, circa il significato delle ultime parole in questione e la storia (sempre il passato!) che incarnano.

Maurizio de Giovanni

Maurizio de Giovanni

Al riguardo, ci sono passi de «Il senso del dolore», il primo dei romanzi dedicati a Ricciardi, che risultano assolutamente emblematici. Riflettiamo, per cominciare, su quello relativo al bambino morto che il commissario vede sull’incrocio fra Santa Teresa e il Museo. «L’uomo senza cappello» – scrive de Giovanni di Ricciardi – «sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo». E poteva saperlo solo perché, giusto, fa parte anche lui dei defunti.
Non a caso, del resto, il passo in questione è collocato in posizione fortemente icastica, proprio in apertura del romanzo. Così come non a caso il brigadiere Maione, il fedelissimo collaboratore di Ricciardi, si dichiara convinto che nel commissario abiti una parte del proprio figlio Luca, anche lui poliziotto e ammazzato a coltellate durante una perquisizione. In breve, si determina una perenne osmosi fra i morti e coloro i quali vengono ufficialmente classificati come vivi.
Infatti, non potrebbero essere più esplicite, in proposito, le parole che Ricciardi, quasi tremando «per un fuoco immenso, dentro», rivolge a don Pierino: «Credetemi se vi dico che la dannazione è la percezione quotidiana del dolore. Il dolore degli altri che diventa tuo, che ti brucia sulla pelle come una frustata, che ti lascia una ferita che non guarisce, che continua a sanguinare, che ti infetta il sangue».
D’altra parte, non rientra a pieno titolo, nel presente ineffettuale codificato da Ibsen, anche l’amore che nasce fra Ricciardi ed Enrica, un amore che si riduce al guardarsi dalle rispettive finestre? E non rientrano a pieno titolo, nel futuro che lo stesso Ibsen affida all’improbabile ipotesi del «meraviglioso» e di un «prodigio» in cui, peraltro, non si crede più, anche le tenerezze che Enrica («Buona serata, amore mio») e Ricciardi («Buonanotte, amore mio») si scambiano solo sussurrandole fra sé e sé?
Il commissario giunge persino a trascinare anche quell’amore, già di per sé fantasmatico, nella dimensione della morte in cui consistono le sue indagini. Lo fa, per esempio, alla fine del XXI capitolo, quando mescola le faccende domestiche che va svolgendo Enrica con le dichiarazioni che gli ha reso don Pierino: fino a far coincidere quello che è il momento più bello della sua giornata («vederla seduta mentre cominciava a ricamare con la mano sinistra»), il momento che gli fa «tremare il cuore», con il racconto del prete a proposito del tenore Vezzi sul cui assassinio Ricciardi sta indagando: «Vederlo da vicino, ieri, mi ha fatto tremare il cuore».

Henrik Ibsen

Henrik Ibsen

D’altronde, in tal senso si tocca l’acme quando il commissario, raccogliendo la confessione dell’assassina, Maddalena Esposito, e constatando che il colpo mortale con le forbici nella carotide di Vezzi lei l’ha inferto con la sinistra, commenta nella sua testa: «[…] perché sei mancina, come la mia Enrica». E allo stesso modo, la conclusione del XXVI capitolo, che vede protagonista il Ricciardi che, avviandosi sulla scalinata che portava alle quinte e ai camerini del San Carlo, «pensava alla morte», coincide perfettamente con l’avvio del capitolo XXVII, che vede protagonista il presunto assassino, Michele Nespoli, mentre, anche lui, «pensava alla morte».
Sì, nell’ambito generale di un presente che, ripeto, esiste appena in funzione del passato, sia Ricciardi che i personaggi sui quali indaga rientrano nella dimensione della morte, ovvero di una vita che, giusto, è soltanto pensata. E del resto, il discorso si può chiudere, in maniera probante, con la considerazione – ovvia solo in apparenza – che persino sul piano «storico» Maurizio de Giovanni accoglie e mette a frutto la lezione di Ibsen.
I romanzi che hanno come protagonista l’ormai celeberrimo commissario dagli occhi verdi sono tutti ambientati negli anni Trenta, ossia nei tempi del fascismo ormai consolidatosi come regime. E possiamo, dunque, accostare Luigi Alfredo Ricciardi al Philip Marlowe del grande Raymond Chandler: nel senso che possiamo azzardare l’ipotesi che il vero obiettivo di Ricciardi, così come quello di Marlowe, non sia un assassino in carne ed ossa, ma proprio un certo tipo di società.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 2/1/2019)

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