Arriva in platea, il cavalluccio rosso di «Così parlò Bellavista»

Da sinistra, Nunzia Schiano, Geppy Gleijeses e Marisa Laurito in un momento di «Così parlò Bellavista».in scena al Diana

Da sinistra, Nunzia Schiano, Geppy Gleijeses e Marisa Laurito in «Così parlò Bellavista», di scena al Diana

NAPOLI – Cerchiamo d’essere chiari e, almeno per un momento, di mettere da parte l’ipocrisia: «Così parlò Bellavista» – lo spettacolo, adesso in scena al Diana, che Geppy Gleijeses ha tratto un po’ dal romanzo (1977) e moltissimo dal film (1984) omonimi di Luciano De Crescenzo – è un’operazione commerciale che utilizza come cassa di risonanza il fatto che lo stesso De Crescenzo ha compiuto novant’anni: tanto è vero che, per esempio, sul sito del Quirino, il teatro gestito a Roma da Gleijeses, in calce alla locandina dello spettacolo in questione compare la scritta: «Festa per il compleanno del caro amico Luciano».
Ora, non v’è alcun dubbio che ciascuno sia padrone di far soldi come crede e, anche, di dare sfogo sul palcoscenico al sentimento dell’amicizia. Ma è altrettanto indubbio che nessuno è padrone di spacciare la ricerca dei soldi e la pratica dell’amicizia per analisi socio-culturale. E qui – come scrissi sul «Corriere del Mezzogiorno» nel settembre scorso, in occasione della serata di gala che vide l’anteprima al San Carlo di questo «Così parlò Bellavista» in formato teatrale – si è preteso di affermare, sostanzialmente, che non solo la Napoli raccontata da Luciano De Crescenzo esiste tuttora, ma, nientemeno, ci regala il viatico per il cammino verso ogni possibile palingenesi.
Qualcuno, pur di attaccare chi ha osato mettere in discussione la caratura ideologica e letteraria di De Crescenzo, s’è spinto a contrapporre la «gente normale», a cui il romanzo è piaciuto, e i «nostri pensatori», ai quali, invece, non è piaciuto. Ciò che, se la lingua italiana non è un’opinione, equivale a sostenere che chi pensa non è normale. E dal canto suo Gleijeses, sempre allo scopo di attaccare quelli che lui chiama «soloni della critica paludata», ha ricordato su «Il Mattino» il seguente passo della prefazione al romanzo scritta da De Crescenzo: «Guai a parlare di mare, di sole, e di cuore napoletano! Cominciando da Malaparte e finendo a Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Domenico Rea, Raffaele La Capria, Vittorio Viviani e compagnia cantando, il desiderio di togliere il trucco con il quale per tanti anni era stato imbellettato il volto della nostra città ha fatto sì che insieme ai cosmetici è stata tolta forse anche la pelle del viso di un popolo che, pur senza mandolini e chitarre, continuava in ogni caso ad avere una propria fisionomia caratteristica».
De Crescenzo, insomma, sostiene che era meglio non toglierlo, quel trucco. Ma come la mettiamo – scrissi, ancora, sul «Corriere del Mezzogiorno» – col fatto che quanti quel trucco lo tolsero, sia pure a rischio di ferire a morte la pelle che c’era sotto, abbiano guadagnato un posto nella storia della letteratura italiana, mentre il contrario è capitato a De Crescenzo? Non viene neppure nominato, poniamo, nella monumentale «La letteratura italiana. Storia e testi» (dieci volumi e venti tomi) diretta per Laterza da Carlo Muscetta e a cui hanno collaborato, fra gli altri, Salvatore S. Nigro, Nicola Badaloni, Renato Barilli, Nino Borsellino, Alberto Asor Rosa, Rosario Contarino, Romano Luperini e Franco Fortini.

Da sinistra, Benedetto Casillo e ancora Gleijeses in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Benedetto Casillo e ancora Gleijeses in un altro momento dello spettacolo

Ebbene, aggiunsi, risulta probante, rispetto alle accuse mosse da De Crescenzo, proprio un confronto fra lui e Compagnone. Mentre Egidio Alinei, uno dei protagonisti del romanzo di Compagnone «L’amara scienza», osserva: […] chi più scrive oggi per fare del male? Rivoluzionari, sì, in apparenza, i nostri scrittori; dediti in sostanza ad accordi bonari su certezze comuni», Bellavista dice, al genero che gli chiede se debba subire la richiesta della tangente da parte della camorra: «Per il momento sì, per non subire avresti bisogno di uno Stato in grado di proteggerti meglio. Purtroppo il nostro Stato non lo fa. Che t’aggia dì: considerala una tassa e paga».
Evidentemente, commentai, non hanno capito niente – al pari dei «soloni della critica paludata» – i fessi che, convinti che lo Stato siamo noi, si sono ribellati e, in qualche caso, si son fatti ammazzare pur di non considerare una tassa qualsiasi la tangente. E conclusi che, paradossalmente, il discorso su «Così parlò Bellavista» l’aveva riassunto proprio Alessandro Siani, ispiratore e produttore dello spettacolo che ne è stato tratto. Prima aveva dichiarato che, per l’appunto, la Napoli di De Crescenzo «copre tutto il resto» e poi, sempre su «Il Mattino» e sempre a proposito di Bellavista, aveva scritto: «E più invecchiamo e più ne sentiamo il bisogno della sua Napoli, come un ricordo, che riporta immediatamente alla spensieratezza, che ti culla in una piacevole distrazione per l’anima. Senza pensarci o come si direbbe oggi: guardati “Così parlò Bellavista”, e stai senza pensier!».
A tutto questo (e chiudo, con ciò, la premessa allo spettacolo in sé) un noto e valoroso cattedratico, molto presente sulle pagine dei giornali e nei salotti televisivi, oppose dalla tribuna di un quotidiano nazionale una reprimenda in cui – senza nominarmi, ma riprendendo concetti e, testualmente, intere frasi dell’articolo da me pubblicato sul «Corriere del Mezzogiorno» – s’attaccò, fondamentalmente, all’argomento (chiamiamolo così) secondo il quale i «critici paludati» hanno «snobbato» De Crescenzo perché mandati «in bestia» dal fatto che «ogni libro del nostro autore è subito diventato un best seller internazionale, facendo soldi a palate».

L'incontro in ascensore fra Cazzaniga (Gianluca Ferrato) e Bellavista (Geppy Gleijeses)

L’incontro in ascensore fra Cazzaniga (Gianluca Ferrato) e Bellavista (Geppy Gleijeses)

Il mio illustre contraddittore, insomma, riduceva un discorso complesso a una banalissima questione d’invidia e, per l’appunto, di soldi. E per quanto riguarda l’accenno che avevo fatto (ma, ripeto, era solo un esempio) a «La letteratura italiana. Storia e testi» diretta da Carlo Muscetta, aggiungeva ironicamente: «Non credo che Muscetta abbia inserito nei suoi venti tomi il libro “Napoli e la questione meridionale” di Francesco Saverio Nitti, eppure quel testo magistrale ci fa capire Napoli più di Matilde Serao e dello stesso Viviani». Ma bastano, a dimostrare l’improponibilità di quell’ironia, la considerazione che uno studioso non deve «credere», deve sapere, e il fatto che ne «La letteratura italiana. Storia e testi» diretta da Carlo Muscetta a Nitti son dedicate tre pagine, mentre, ripeto, Luciano De Crescenzo non viene neppure nominato. E che c’è? Passi per i Malaparte, i Compagnone, le Ortese, i Rea, i La Capria e i Vittorio Viviani, ma sono (o erano) invidiosi dei soldi guadagnati da De Crescenzo pure i Muscetta, i Nigro, i Badaloni, i Barilli, i Borsellino, gli Asor Rosa, i Contarino, i Luperini e i Fortini? E io, poi, che c’entro io, che non ho fatto, non faccio e non farò mai il romanziere?
Venendo, adesso, allo spettacolo, non trovo alcuna difficoltà a riconoscere e sottolineare che Geppy Gleijeses, in quanto regista, ha fatto – sia pur nei limiti dell’intrattenimento – un gran bel lavoro: innanzitutto preoccupandosi di «gelare», nella misura del possibile, il bozzettismo determinato da De Crescenzo, quello che, mettiamo, s’incarna nelle popolari scene del cavalluccio rosso, della lavastoviglie, del banco lotto e della Cinquecento tappezzata di giornali. E ci è riuscito attraverso un sagace e dichiarato straniamento che si manifesta, a mo’ di epigrafe, già prima dell’inizio della rappresentazione, quando, col sipario chiuso, sotto la sagoma del taxi che trasporta Cazzaniga dall’aeroporto si vedono i piedi suoi e del conducente.
Nel corso dello spettacolo, poi, tale straniamento prende corpo con efficacia evidente dal fatto che gli arredi vengono collocati e portati via a vista dagli stessi attori, con l’effetto parallelo di realizzare una serie di dissolvenze incrociate che tolgono all’azione l’impaccio di uno svolgimento naturalistico. E su questa strada si arriva, con efficacia non minore, a un assai godibile interscambio fra palcoscenico e platea. In platea, infatti, Rachelina scaraventerà quella lavastoviglie che si rifiuta di funzionare. E in platea si trasferirà la scena del cavalluccio rosso, con gli attori che in varie riprese coinvolgeranno il pubblico con battute tipo: «Scusate, signo’: gli volete chiedere voi che è successo?».
Infine, per quanto riguarda gl’interpreti, c’è da rilevare subito la prova maiuscola, e insieme raffinata e disinvolta, che Geppy Gleijeses fornisce nei panni di Bellavista: una prova che, nella sequenza dell’imbottigliamento dei pomodori, giunge persino – mercé un catalogo prezioso di smorfie tra la noia, la rassegnazione, l’allusività e il sarcasmo – a costituire un «numero» da antologia.
Fra gli altri, spicca Benedetto Casillo nel ruolo del vice sostituto portiere Salvatore che già fu suo nel film. E per il resto vanno annotati la simpatia di Marisa Laurito (Maria Bellavista), la sempre puntuale immedesimazione di Nunzia Schiano (Rachelina e la signora del banco lotto), l’«aplomb» di Gianluca Ferrato (Cazzaniga) e la versatilità di Salvatore Misticone (il cavaliere, l’avvocato Russo, Core ‘Ngrato, il signore col cavalluccio rosso, Giggino e il chitarrista), di Vittorio Ciorcalo (Saverio e il tassista) e di Gino De Luca (Luigino, il guappo, il vigile, il colonnello e l’impiegato del banco lotto).

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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