Il Grande Fratello? Adesso abita dentro di noi

Un momento di «1984», in scena al Teatro Bellini (le foto che illustrano l'articolo sono di Guido Mencari)

Un momento di «1984», in scena al Teatro Bellini
(le foto che illustrano l’articolo sono di Guido Mencari)

NAPOLI – È in scena al Bellini l’adattamento di «1984» di Orwell diretto da Matthew Lenton e coprodotto da Emilia Romagna Teatro e CSS Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia. Ne ripubblico la recensione che scrissi quando lo vidi nell’aprile scorso al Teatro delle Passioni di Modena.

È assai improbabile che Matthew Lenton sappia chi era Roderigo di Castiglia. Ma sta di fatto che appunto a Roderigo di Castiglia ho pensato mentre vedevo l’adattamento di «1984» di Orwell diretto dal pluripremiato regista britannico.
Roderigo di Castiglia, come ricorderanno gli ormai pochissimi superstiti di un mondo del tutto scomparso, era lo pseudonimo di un certo Palmiro Togliatti. E proprio firmando con quello pseudonimo, il segretario del Pci scrisse che «1984» non è altro che «una buffonata informe e noiosa, giudicabile semmai come strumento di lotta che uno spione ha voluto aggiungere al suo arsenale anticomunistico».
Roderigo di Castiglia/Palmiro Togliatti si scagliava, è ovvio, contro la satira dell’Unione Sovietica di Stalin messa in campo da Orwell. E basterebbe quel suo attacco a dimostrare che «1984» non è, come molti si ostinano a ritenere, il parto di un intellettuale di sinistra. Piuttosto, occorre convincersi che ben più complesso, e ambiguo e ambivalente insieme, risulta il messaggio lanciato da quel capolavoro della letteratura distopica del Novecento.
Valgano, al riguardo, due affermazioni di Guido Bulla, il grande anglista allievo di Agostino Lombardo che nel 2000 curò il Meridiano Mondadori dedicato a Orwell. Definisce il romanzo in questione «un apologo non solo e non tanto sulla degenerazione storica e politica del mondo contemporaneo quanto sulla degenerazione politica e morale del soggetto che tale mondo pensa e interpreta»; e precisa che «dopo aver posto sotto accusa il resto del mondo, il protagonista finisce per scoprire, come Edipo, di aver cercato invano, per anni, un assassino che gli abita dentro».
È questo che bisogna tener presente, soprattutto oggi, nel rileggere la storia del Grande Fratello che controlla le opinioni, i sentimenti e i desideri di tutti attraverso teleschermi-spia piazzati in ogni casa e in ogni ufficio; ed è alla luce di questo che bisogna interpretare la vicenda personale di Winston Smith, il mediocre funzionario del Partito Unico protagonista del romanzo di Orwell: appare quantomeno confuso se non, per l’appunto, ambiguo il tentativo di ribellione che mette in atto insieme con Julia, anche lei dipendente indisciplinata del Partito.
In proposito, mi affretto, quindi, ad aggiungere che Lenton non commette l’errore di arruolarsi a sua volta nelle schiere foltissime di quanti – pensatori, politici e, giusto, metteurs en scène – hanno individuato nel Grande Fratello soltanto il proprio nemico esterno del momento. Ne fa fede, anticipando quel che vedremo e sentiremo nello spettacolo, una sua intervista pubblicata nel programma di sala e concessa (ecco, sia detto per inciso, un bell’esempio di come si possa mettere in contatto il teatro e i giovani) a Barbara Panza, Elisabetta Fiandri e Sofia Forni, tre studentesse della classe quarta A del Liceo Classico e Linguistico Muratori San Carlo di Modena.

Da sinistra, Luca Carboni e Mariano Pirrello in un altro momento di «1984», diretto da Matthew Lenton

Da sinistra, Luca Carboni e Mariano Pirrello in un altro momento di «1984», diretto da Matthew Lenton

Osserva fra l’altro Lenton: «Io preferirei vivere libero e in un mondo un po’ più pericoloso, piuttosto che essere limitato e costretto a vivere in una realtà considerata sicura, ma secondo la definizione di sicurezza data da qualcun altro. La vita è bellissima e allo stesso tempo non lo è, e mi sembra bizzarro provare a controllarla. E forse proponiamo proprio questo nello spettacolo, in modo sì controverso, ma necessario, perché molte persone, specialmente i giovani, conducono le loro esistenze tramite i social media. Si costruiscono così il tipo di vita che vorrebbero per se stessi».
Di conseguenza, l’intelligente e funzionalissimo impianto scenografico di Guia Buzzi accoglie cornici luminose di diverse dimensioni che disegnano il profilo di tre teleschermi (naturalmente inesistenti in sé) collocati a varia distanza fra loro e l’uno dentro l’altro come nel gioco delle scatole cinesi: la prima è grande quanto il boccascena (e contiene, perciò, l’intera rappresentazione), la seconda, quella intermedia, racchiude azioni singole e la terza, la più piccola, ospita fugaci apparizioni di personaggi emblematici (Trump, Kim Jong-un, Xi Jinping…) e, soprattutto, l’occhio del Grande Fratello sulla cui pupilla scorrono le sue parole d’ordine.
In breve, Lenton determina un continuo scambio fra l’esterno e l’interno, fra il generale e il particolare. Sicché i personaggi (a partire, si capisce, da Winston) compaiono, alternativamente, davanti e dentro il teleschermo intermedio. E in questo, poi, si riflettono a tratti gli spettatori seduti in platea. Del resto, lo spettacolo comincia con un prologo in cui tre degli attori fingono di voler dare luogo a un dibattito fra loro e con il pubblico sull’attualità dei temi che si accingono a svolgere. È la rappresentazione della rappresentazione, è il plot di Orwell trasferito nella testa di chi lo farà vivere in palcoscenico ed è, infine, il passaggio dei personaggi di quel plot alla quotidianità di quanti ne verificano qui e ora la corrispondenza con la propria dimensione umana, sociale e culturale.
Per rendere tutto questo, la regia si serve con straordinaria efficacia della sottolineatura per contrasto: di modo che, poniamo, la gelida e astratta sostanza concettuale dell’insieme trova riscontro nell’evidenza eclatante dei corpi nudi di Winston e Julia avvinti nell’amplesso; mentre la tortura a cui O’Brien sottopone Winston nella famigerata Stanza 101 sfocia addirittura, e non senza una salutare ironia straniante, nell’effetto granguignolesco del sangue che cola copioso dalle dita del ribelle stritolate dalle tenaglie della Psicopolizia.
In definitiva, uno spettacolo nello stesso tempo minimalistico, come doveva essere (lo stesso Lenton firma l’adattamento e la traduzione insieme con Martina Folena), e barocco, come deve apparire nel momento in cui evoca l’orgia di chiacchiere in libertà scatenata giorno dopo giorno da «un’umanità saccente, quella dell’era social, dove tutti parlano e nessuno ascolta, ma chiunque si sente in diritto di insegnare agli altri qualcosa che non sa e che non ha alcuna intenzione di imparare».
Lo ha scritto (benissimo) Massimo Gramellini sul «Corriere della Sera». E non è, esattamente, la traduzione del terzo (dopo «La guerra è pace» e «La libertà è schiavitù») degli slogan del Partito Unico di Orwell, «L’ignoranza è forza»?
Non resta che rilevare quanto siano aderenti a un contesto del genere gl’interpreti in campo, corpi che le sapienti luci di Orlando Bolognesi fanno emergere dal buio con una plasticità scultorea oscillante fra Caravaggio e La Tour: sono Luca Carboni (Winston), Eleonora Giovanardi (Charrington), Nicole Guerzoni (il narratore), Stefano Agostino Moretti (Parsons), Aurora Peres (Julia), Mariano Pirrello (O’Brien) e Andrea Volpetti (Syme).

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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