Se il pastore Aminta fa il satiro sulle note di Monteverdi

Un momento dell'«Aminta» di Tasso, in scena al Nuovo per la regia di Antonio Latella (le foto che illustrano l'articolo sono di Brunella Giolivo)

Un momento dell’«Aminta» di Tasso, in scena al Nuovo per la regia di Antonio Latella
(le foto che illustrano l’articolo sono di Brunella Giolivo)

NAPOLI – «Trasfigurotti in viso questo trucco». «La dura storia della tua morte che hai ben recitato». «Del tuo teatro ei non farà specchio».
Sono parole di «Aminta», l’adattamento della celebre favola pastorale di Torquato Tasso che la Compagnia stabilemobile presenta ancora oggi al Nuovo per la regia di Antonio Latella. Però non appartengono al testo originario, e nemmeno al Tasso in generale. Le ha scritte Linda Dalisi, autrice dell’intrigante e fondatissima drammaturgia qui messa in scena, per riferirsi al fatto che Silvia si è travestita da Nerina per raccontare la propria (del resto a sua volta finta) morte. Laddove appartengono al Tasso, ma sono una citazione dalla «Gerusalemme liberata» (precisamente dal canto XIX), i versi («L’anima mia puote scemar la pena: / ché d’esser vendicata in breve aspetta: / e dolce è l’ira in aspettar vendetta») adottati per sottolineare e rafforzare la reazione della stessa Silvia alla violenza del satiro.
Insomma, è per l’appunto il travestimento l’autentico motore di quest’adattamento. E riprendo in proposito i brevi cenni d’introduzione che già feci affrontando l’analisi dell’allestimento di «Aminta» da parte di Luca Ronconi, in «prima» all’Argentina di Roma il 14 aprile del 1994.
Siamo di fronte a una favola pastorale in un prologo e cinque atti che – composta nella primavera del 1573 e, con ogni probabilità, rappresentata per la prima volta dalla Compagnia dei Gelosi il 31 luglio dello stesso anno nell’isoletta di Belvedere sul Po, luogo di delizia dei duchi di Ferrara – nasconde, sotto la finzione della storia d’amore tra il pastore Aminta e la pastorella Silvia, lei ritrosa e lui tanto invaghito da tentare di uccidersi gettandosi giù da un dirupo, una fitta trama di allusioni riferite, giusto, alla corte estense.

Da sinistra, Matilde Vigna e Giuliana Bianca Vigogna  in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Matilde Vigna e Giuliana Bianca Vigogna in un altro momento dello spettacolo

In breve, l’interesse di quest’opera di squisita fattura sul piano strettamente letterario – un «portento», la definì Carducci – sta proprio nel sapiente equilibrio stabilito dal Tasso fra l’esercizio di una tecnica poetica estremamente raffinata e l’abbandono, tra malizioso e malinconico, al gioco di società, per suo conto «minato» dal desiderio di fuggire dall’ambiente di corte verso la libertà della natura. Sicché abbiamo da un lato l’assunzione di un incredibile numero di modelli canonici (si va da Teocrito a Virgilio, da Sannazaro a Giraldi Cinzio e ad Agostino de’ Beccari) e, dall’altro, l’escursione nell’ironia e nel disincanto, manifestati soprattutto attraverso i personaggi di Dafne e Tirsi (nel quale ultimo, è bene ricordarlo, si cela lo stesso Tasso).
Per riassumere, si tratta per l’appunto di un’opera in maschera. Ed è su questo carattere precipuo del testo di Tasso che si fonda – in perfetta sintonia con la drammaturgia della Dalisi – la regia di Latella, addirittura vertiginosa per intelligenza e lucidità.
Ma il travestimento – agganciandosi nella circostanza a una materia inscritta nel mito – implica tre cose innanzitutto: la circolarità, la ritualità e quella che con il linguaggio dello specifico filmico si definisce dissolvenza incrociata. E nel merito lo spettacolo di Latella mette in campo una coerenza fra i suoi elementi strutturali ed espressivi che definire esemplare è più che riduttivo. A partire, in fatto di circolarità, da quei versi iniziali del primo tempo («Chi crederia che sotto umane forme»…) che, detti in coro da Dafne, Silvia e Aminta, danno l’attacco anche al secondo.
Per quanto riguarda, poi, la ritualità, che della circolarità è diretta conseguenza, basta por mente alla posizione che assumono sul palcoscenico i quattro interpreti: stanno, giusto, dentro un’area circolare da cui non escono mai, in piedi dietro un microfono montato sulla relativa asta salvo quello che interpreta in personaggio di Aminta, dotato invece di un «gelato» e che, rappresentando il «sacerdote» in quanto personaggio principale, di tanto in tanto esce dal «coro», aggirandosi intorno ad esso in una sorta di liturgia. E per ciò che attiene, infine, alla dissolvenza incrociata, sarebbe sufficiente considerare l’impianto scenico di Giuseppe Stellato: che consiste in un binario, sempre circolare, su cui scorre dall’inizio alla fine, lentissimo, un proiettore che continuamente fa passare dal buio alla luce e viceversa il volto dei quattro interpreti, così determinando, peraltro, un’allusione al tempo che passa e al passaggio dalla notte al giorno e dal giorno alla notte.

Da sinistra, Michelangelo Dalisi ed Emanuele Turetta, gli altri due interpreti di  «Aminta»

Da sinistra, Michelangelo Dalisi ed Emanuele Turetta, gli altri due interpreti di «Aminta»

In tal modo, si sottolinea come meglio non si sarebbe potuto, anche sotto il profilo visivo, il carattere anfibologico del testo di Tasso, mentre dell’artificiosità tendenziosa della scrittura da lui adottata nell’occasione rende conto, con impagabile ironia, quel Tirsi che, in pratica, non smette un momento di temperare la matita. Ma ho usato il condizionale (sarebbe sufficiente considerare l’impianto scenico di Giuseppe Stellato) giacché, poi, la dissolvenza incrociata trova un’ulteriore e ancor più sostanziale applicazione nell’accorpamento di taluni dei personaggi: di Silvia con Nerina, di Aminta con il nunzio Ergasto e, soprattutto, dello stesso Aminta con il satiro. E circa quest’ultimo accorpamento davvero mi sembra superfluo dire quanto sia significante, in ordine, nello stesso tempo, ai risvolti politici nascosti nel testo e alla compresenza, nel personaggio del pastore, dell’innocenza e di un’oscura forza animalesca.
Il momento che illustra tale compresenza è, non a caso, fra i più intensi e coinvolgenti dello spettacolo: Silvia, stando alle spalle di Aminta, gli abbassa i pantaloni fino a lasciarglieli attorcigliati intorno alle caviglie, sì da costituire un’immagine dei piedi caprini del satiro; ed è lei, in breve, a determinare il manifestarsi di Aminta come satiro, con ciò facendo emergere, quindi, anche una sua propria passione di stampo altrettanto animalesco. Siamo sempre, come si vede, alla dissolvenza incrociata.
In più, ad esaltare tutto questo, spingendolo addirittura a un approdo che ha la pregnanza di un teorema, interviene la colonna sonora curata con la solita maestria da Franco Visioli: una colonna sonora che accoglie nel secondo tempo le canzoni «Rid of me» di PJ Harvey e «Vitamin C» dei Can e specialmente, nel primo, il madrigale «Lamento della ninfa» di Monteverdi.
Visioli intendeva, certo, rimarcare la musicalità dei versi di Tasso. Ma io penso che Monteverdi ci stia bene anche, e soprattutto, per questioni sostanziali assolutamente in linea con l’impianto registico. Fu, per l’appunto, il principe del «travestimento»: tanto è vero che riuscì a convincere più di un musicologo di vaglia dell’esistenza, nell’arco della sua produzione, di due fasi stilistiche distinte, mentre si trattava soltanto di variazioni apparenti rispetto a un’organicità e, giusto, a una coerenza di fondo. E la caratteristica principale dei madrigali di Monteverdi fu quella di opporre alla multiformità della struttura polifonica un’associarsi unitario delle voci, di modo che il risultato espressivo dipendeva dai richiami che quelle voci si trasmettevano fra loro.
Non siamo all’accorpamento di cui sopra? E a loro volta, i brani musicali immessi nello spettacolo di Latella non sono forse un equivalente dei pezzi strumentali, che lui chiamava «sinfonie» o «ritornelli», introdotti da Monteverdi nell’opera lirica secondo una concezione originale, a mo’ di appendice o commento all’azione? E non parla di un «travestimento» il fatto che, a fronte delle quattro voci impiegate, il «Lamento della ninfa» riveli, sostanzialmente, una struttura monodica? E infine, non costituiscono un rimando alla predetta circolarità gli accordi di quel madrigale che di tanto in tanto ritornano, specialmente in coincidenza con il ripetuto voltarsi di Silvia verso il pubblico, a manifestare un soprassalto qui e ora della sua coscienza di donna rispetto all’artificio dell’attrice che recita un amore ridotto a pura forma estetica?
Non credo, a questo punto, di dover spendere molte parole per sottolineare la bravura (e, di più, l’aderenza allo schema registico) degl’interpreti: Michelangelo Dalisi (Tirsi), Emanuele Turetta (Aminta), Matilde Vigna (Silvia) e Giuliana Bianca Vigogna (Dafne). Mi limito a ricordare che tre di loro (Turetta, la Vigna e la Vigogna) già si segnalarono in occasione del monumentale progetto «Santa Estasi – Atridi: otto ritratti di famiglia» che due anni fa Latella ideò e realizzò per Emilia Romagna Teatro. E anche questa è coerenza. È la coerenza che, individuata all’interno del suo percorso complessivo, rappresenta – lo dico sempre – il solo riscontro per intendere pienamente un artista.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *