Si dice vodka, ma significa indeterminatezza

Rebecca Rossetti in un momento di «Platonov», in scena nel Teatro Fontana (le foto che illustrano l'articolo sono di Manuela Giusto)

Rebecca Rossetti in un momento di «Platonov», in scena nel Teatro Fontana
(le foto che illustrano l’articolo sono di Manuela Giusto)

MILANO – «Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove». Questo il sottotitolo dato da Marco Lorenzi e Lorenzo De Iacovo alla loro riscrittura del «Platonov» di Cechov che la compagnia Il Mulino di Amleto presenta nel Teatro Fontana. E ci abbiano pensato o meno, Lorenzi e De Iacovo, sta di fatto che quel sottotitolo costituisce una parafrasi del paradosso eclatante di Koltès: «Il teatro non mi è mai piaciuto molto, perché è evidentemente il contrario della vita: eppure ci torno sempre, e mi attira proprio perché è il solo posto nel quale si ammette subito che la vita è altrove». Un paradosso che, poi, rimanda all’osservazione che infinite volte m’è capitato di ripetere: il teatro, per sua natura, sconta la maledizione di dover fingere la vita nel momento stesso in cui vive.
Si capisce, insomma, che parliamo di uno spettacolo di non trascurabile consistenza. E il primo dei suoi meriti sta proprio nell’essere stato ideato e allestito: nell’essere stato ideato e allestito, voglio dire, nel pieno della crisi (morale, economica, sociale, politica e culturale) che oggi c’investe.
«Platonov» è il cosiddetto «dramma inedito», scritto da Cechov nel biennio 1880-’81, quando l’autore de «Il giardino dei ciliegi» non aveva che una ventina d’anni. E si tratta di un testo che consiste in uno studio di psicologia individuale, centrato su un avvilito maestro elementare, appunto Michail Platonov, che affoga nel vuoto della sua immutabile esistenza di dongiovanni di provincia, in un’atmosfera che risente, addirittura, degl’influssi di Dumas figlio e di Sardou. Tanto che, non a caso, un altro personaggio dice che, secondo lui, Platonov «è il miglior rappresentante dell’indeterminatezza contemporanea».
È perciò, senza dubbio, che l’opera in questione torna puntualmente alla ribalta nei momenti di crisi. Come avvenne, per fare un esempio, nel 1940, quando gli americani l’allestirono ambientandola, col titolo «Fireworks on the James», in uno stato meridionale degli Usa. E d’altronde, a suggerire tali sintonie con i periodi bui è la stessa fisionomia sfuggente del dramma: venne ritrovato soltanto nel 1921, diciassette anni dopo la morte dell’autore, privo del frontespizio e, quindi, del titolo. Il titolo «Platonov» gli è stato dato in Francia, probabilmente da André Barsacq. Ed ecco perché, nel 1997, Dodin, il maestro del Malij Teatr di San Pietroburgo, intitolò «Un’opera senza titolo» un suo strepitoso allestimento del «Platonov», specificando nelle note di regia: «Un’opera senza titolo è la vita. Anche la vita è un’opera senza titolo. Soprattutto la nostra vita attuale».
Si giustifica perfettamente, allora, quest’adattamento di Marco Lorenzi e Lorenzo De Iacovo. Ed è sintomatico che la loro battuta mutuata da Cechov sul finale («Stasera abbiamo deciso che bisogna fare qualcosa di più faticoso che morire. Questa sera bisogna continuare a vivere») ricordi quella riferita allo stesso Cechov («ha capito che i suoi personaggi dovevano fare qualcosa di ancora più difficile che morire. Dovevano continuare a vivere») che pronunciava Bush Moukarzel, coautore e coregista con Ben Kidd dell’adattamento di «Platonov» che, col titolo «Chekhov’s first play», la celebre compagnia irlandese Dead Centre presentò nell’ottobre dell’anno scorso nel teatro comunale «Luciano Pavarotti» di Modena.
È proprio vero, la respiriamo nell’aria, in qualsiasi parte del mondo, e la recitiamo ogni sera, su qualsiasi palcoscenico, la crisi morale, economica, sociale, politica e culturale di cui dicevo. Ed è per questo che il secondo e decisivo merito dello spettacolo allestito da Il Mulino di Amleto risiede nel fatto che, per l’appunto, si riduce a un autentico, continuo e inarrestabile scontro all’ultimo sangue fra il teatro e la vita.
Basta un solo esempio a dimostrare come in concreto si determini e si sviluppi questo scontro, orchestrato dall’agile regia di Marco Lorenzi sul filo di un umorismo in pari tempo disinvolto e affilato. La lettura noiosissima dell’irlandeseThomas Mayne Reid di cui riferisce il testo originale viene sostituita da quella reiterata di «Guerra e pace», in un gioco, per l’appunto teatrale, che allude ai rapporti difficili fra Cechov e Tolstoi. E con un simile gioco entra in rotta di collisione la battuta cechoviana, per converso lucidissima e amarissima, che costituisce un’autentica chiamata di correo: «La gente ha paura di tutto e quindi ha anche paura di denunciare. Preferisce starsene qui seduta con un bel pacco di “niente” fra le mani».

Michele Sinisi e Roberta Calia in un altro momento dello spettacolo, diretto da Marco Lorenzi

Michele Sinisi e Roberta Calia in un altro momento dello spettacolo, diretto da Marco Lorenzi

D’altra parte, con precisione e decisione non minori appare sottolineata l’impotenza (e comunque l’evasività) del teatro nei confronti dei cambiamenti da realizzare nel mondo. Dopo aver pronunciato la battuta: «Dedicarsi al teatro non vuol dire starsene in ozio», Vojnicev, che medita di mettere in scena nientemeno che un «Amleto», fa una lunghissima pausa e, poi, volge in giro uno sguardo da cane bastonato, come quello di chi è stato appena costretto a confessare una menzogna che avrebbe di gran lunga preferito tacere. E un gabbiano cade stecchito dall’alto quando lo stesso Vojnicev prende a sparare a casaccio con la pistola.
È, s’intende, un’allusione per l’appunto a «Il gabbiano», di cui, del resto, si cita espressamente un brano. E tanto per rimarcare che, ovviamente, il «Platonov» si pone anche, e soprattutto, come il laboratorio in cui Cechov sperimentò i temi che in seguito avrebbe ripreso nelle opere maggiori. Infatti, la vendita all’asta della tenuta di Anna Petrovna Vojniceva non rappresenta, evidentemente, che una prova generale, e dichiarata, di quella della tenuta di Ljuba Andreevna Ranevskaja che avrà luogo ne «Il giardino dei ciliegi», non a caso l’ultimo testo (dunque una sorta di testamento) scritto dal drammaturgo di Taganrog.
A questo punto, avrete intuito che lo spettacolo di cui parliamo procede – molto efficacemente, e sempre con piglio ironico – su un doppio binario espressivo che alterna un minimalismo realistico addirittura maniacale (vedi lo zampirone che viene acceso all’inizio, perché, diamine, siamo in campagna e in campagna ci sono le zanzare) all’iperbole spudoratamente surreale (vedi quella vodka che davvero scorre a fiumi, fino alla doccia finale che investe l’intero manipolo di quei perdigiorno gozzoviglianti per mezzo di uno spruzzatore d’insetticida).
Di conseguenza, è chiaro che non poteva partire il colpo di pistola che nel testo di Cechov uccide al termine Platonov. Al suo posto viene pronunciata la battuta mutuata da Cechov che ho riferito, con l’aggiunta: «La vita! Perché non viviamo come avremmo potuto?» e il commento: «Ecco, finché non ci sarà una risposta a questa domanda abbiamo bisogno, abbiamo voglia di continuare a vivere».
Buona, infine, la prova complessiva degl’interpreti. Accanto a Michele Sinisi (Platonov), si distinguono specialmente Roberta Calia (Anna Petrovna), Barbara Mazzi (Sofja Egorovna), Stefano Braschi (Porfirij Semenovic Glagolev I) e Rebecca Rossetti (Aleksandra Ivanovna). E chiudo osservando che si tratta, ma in fondo l’ho già detto, di uno spettacolo allegrissimo, ad onta che verta sulla disperazione. Agli spettatori, via via ch’entrano in sala, viene offerto un bicchierino. Di vodka, ci mancherebbe.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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