Martone vs Scarpetta

Eduardo Scarpetta

Eduardo Scarpetta

NAPOLI – Riporto la riflessione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Per conto mio è la notizia più significativa che nei tempi recenti sia venuta dal mondo dello spettacolo: Mario Martone dirigerà un film su Eduardo Scarpetta con Toni Servillo protagonista. E risulta oltremodo significativa, quella notizia, sia per un motivo d’ordine esterno (lascia pensare a una tappa ulteriore della marcia di avvicinamento a Napoli di Martone, forse, dicono alcuni, in vista della direzione dello Stabile cittadino) sia, ciò che maggiormente conta, per il suo contenuto specifico (essendo Scarpetta il simbolo non solo del teatro napoletano a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, ma della stessa Napoli).

Mario Martone

Mario Martone

Infatti, proprio come Napoli, Eduardo Scarpetta è in pari tempo buono e cattivo: buono perché, con la sua «riforma», avviò il passaggio dalla fissità della maschera alla moderna articolazione del personaggio; cattivo perché quel passaggio avvenne a prezzo della morte di Pulcinella e della sostituzione di quest’ultimo con Felice Sciosciammocca. E mi spiego, riprendendo una serie di considerazioni che lungo gli anni ho avuto modo di sviluppare.
Con la «conquista» capitalistica del Meridione, decadono i valori espressivi, linguistici e letterari del teatro dialettale popolare, chiude il San Carlino, che di quel teatro (e di Pulcinella e del suo più grande interprete, Antonio Petito) era il tempio, e s’impone un nuovo modello di vita e di cultura, di derivazione francese e subito fatto proprio dalla borghesia (e soprattutto dalla piccola borghesia) emergente. E il tramite di quel modello fu per l’appunto Scarpetta, che davvero non a caso si diede a reinventare in napoletano il vaudeville.
Del resto, che Scarpetta sia stato un autore organico alla borghesia lo dimostra ampiamente e inoppugnabilmente proprio la sua commedia più riuscita e più nota: quella «Miseria e nobiltà» in cui, a conti fatti, chi vince – sia pure dopo aver subìto, da parte dell’autore, infinite caricature – è Gaetano Semmolone, ex cuoco ridicolo e ignorantissimo ma che (e questo conta!) ha i soldi e in casa del quale, dunque, i diseredati di turno dovranno andare a sottomettersi se vogliono mangiare.
Difatti, in quel testo Felice Sciosciammocca pronuncia una battuta che rappresenta un vero e proprio manifesto dell’ideologia di Scarpetta: «E pure, che bella cosa è fa’ lo nobele. Rispettato, ossequiato da tutti… cerimonie, complimenti… È un’altra cosa, è la vera vita! Neh, lo pezzente che nce campa a fa’? Il mondo dovrebbe essere popolato di tutti nobili… Tutti signori, tutti ricchi. Pezziente no nce n’avarrieno da sta’. Eh, e si no nce starrieno pezziente, io e Pascale sarriemo muorte… Nce ha da sta’ la miseria e la ricchezza, se capisce…».
In proposito, miglior commento non potrebbe darsi di quello stilato da Croce ne «La Critica» del giugno 1937: «… Dove c’è da notare quella singolare deduzione sillogistica: la miseria non dovrebbe esistere, ma se la miseria non esistesse, io e il mio amico saremmo morti. Il povero diavolo non riesce nemmeno a immaginare che esso e il suo amico possano avere altra parte nel mondo che quella di miserabili, necessaria al mondo e che nessuno, per destinazione di natura, esercita meglio di essi».

Totò nel film di Mario Mattoli tratto da «Miseria e nobiltà» di Scarpetta

Totò nel film di Mario Mattoli tratto da «Miseria e nobiltà» di Scarpetta

D’altronde, la vicenda di Eduardo Scarpetta trova un riscontro probante in quella, parallela, che riguarda la sceneggiata: se anche della sceneggiata, come dell’opera di Scarpetta, rimeditiamo le ragioni e il cammino sul piano generale della storia politica e culturale italiana e del Mezzogiorno in particolare.
Si è spesso sostenuto, lo sappiamo, che questo genere drammatico nacque allorché, in seguito alle forti tasse imposte sulle rappresentazioni teatrali nel secondo decennio del secolo scorso, le compagnie si videro obbligate per l’appunto a sceneggiare le canzoni, cioè a drammatizzarle, contrabbandando così il teatro come canzone. Ma, naturalmente, una simile spiegazione tocca soltanto la superficie dei fatti.
Bisogna compiere qualche passo indietro, ed ecco che di quei fatti appare la sostanza. La «conquista» capitalistica del Meridione a cui ho accennato ebbe, fra gli altri, l’effetto di troncare l’interscambio che esisteva all’interno del vecchio assetto sociale tra l’esperienza colta e quella popolare (si pensi solo a Pietro Trinchera, che mediò il «quotidiano» del Borgo Loreto attraverso quelli che Trevisani definì «segni protoilluministici»). E mentre, ripeto, la borghesia fece proprio il nuovo modello di vita e di cultura veicolato dal teatro di Scarpetta, le crescenti e sempre più pesanti ristrettezze economiche, sociali e ambientali provocarono nel proletariato, e soprattutto nel sottoproletariato e nel proletariato marginale, il bisogno di un riscatto che ancora una volta, per mancanza di rispondenti dati reali, s’identificò nel mito. Di qui la Catarsi, il Trionfo del Bene, la Provvidenza. E la forma in cui tutto ciò si canalizzò fu per l’appunto la sceneggiata, in quanto basata su una musica di facile orecchiabilità e circolazione (che sfruttava a fini commerciali dati di vita reali, poniamo l’emigrazione, e sentimenti altrettanto reali legati alla condizione del proletariato precario ed emarginato in genere) e su una storia di presa immediata ed elementare.
La dipendenza economica del Meridione e il suo essere tagliato fuori dal processo produttivo europeo consentirono, peraltro, il permanere, nel teatro, di forme espressive proprie della Commedia dell’Arte «improvvisa». Le «famiglie teatrali» italiane del ‘500 e del ‘600 a Napoli continuano ad esistere anche nell’Ottocento e nel secolo scorso, ma – tranne le eccezioni Viviani e De Filippo – non propongono più nulla di nuovo, bensì soltanto formule stereotipate prese dal loro glorioso passato.
In definitiva, perciò, la sceneggiata risultava dal composto di attori espertissimi e spesso straordinari e dotati di un innato senso teatrale e di una «vis comica» istintiva di origine antichissima (fra tutti basta ricordare Beniamino e Rosalia Maggio), di dati teatrali autentici e di contenuti inadeguati e demagogici che servivano al «potere» per continuare ad esercitare la sua funzione repressiva e impedire uno sviluppo armonico della società.
Dunque, la «sceneggiata» non era un fatto di cultura popolare, era un fatto di sub-cultura e per dir meglio di cultura subalterna. Ed ecco il punto. Se Martone diventerà il nuovo direttore dello Stabile cittadino, non potrà fare altro che piacere, a uno come me che ha puntato su di lui quando aveva appena diciassette anni e altri dicevano ch’era solo un imbroglioncello che non faceva teatro. Ma intanto mi auguro (anzi mi aspetto) che il suo film su Scarpetta metta qualche punto fermo circa le questioni sostanziali che fin qui ho cercato di riassumere.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 9/11/2016)

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