Adesso, nel porto, invece dei piccioni volano i cardellini

Daniele Russo in un momento di «Fronte del porto», in scena al Bellini (le foto che illustrano l'articolo sono di Mario Spada)

Daniele Russo in un momento di «Fronte del porto», in scena al Bellini
(le foto che illustrano l’articolo sono di Mario Spada)

NAPOLI – «Ho avuto un approccio non proprio ordinario alla scrittura di questa sceneggiatura, non mettendoci pochi mesi ma anni per cercare di assimilare ogni aspetto riguardante il porto di New York, diventando un habitué dei bar della West Side Manhattan e del New Jersey, intervistando sindacalisti del porto ed entrando in confidenza con gli impavidi e schietti preti della parrocchia di Saint Xavier, in uno dei peggiori quartieri di New York, che si occupano di problemi sociali».
Sono parole di Budd Schulberg, l’autore, appunto, della sceneggiatura di «Fronte del porto», il celeberrimo film di Elia Kazan del 1954. E c’è da aggiungere che quella sceneggiatura si basava sui ventiquattro articoli, premiati col Pulitzer, che Malcolm Johnson aveva scritto per il «The New Sun» a partire dall’assassinio di un boss avvenuto, nell’aprile del 1948, proprio nel porto di New York.
Insomma, parliamo di un film che punta su una realtà precisamente datata ed estremamente localizzata. A cui, peraltro, fa riscontro, in chiave di sottolineatura per contrasto, una dimensione simbolica non meno evidente e marcata: stante il fatto che il capolavoro di Kazan è attraversato da una costante tensione verso l’alto, espressa, tanto per cominciare, dalle molte sequenze che si svolgono su quel terrazzo che, per giunta, ospita una voliera con i piccioni viaggiatori, a cui è dedicato, come se non bastasse, un allusivo elogio del volo.
La trama, infatti, racconta – come sappiamo – l’ascesa verso la redenzione dell’ex pugile Terry Malloy, il quale, colluso col racket che controlla i lavoratori del porto, decide – convinto da padre Barry e spinto dall’amore che prova per Edie Doyle, sorella di una delle vittime dei malavitosi in questione – di testimoniare in tribunale contro il clan.
Ora, Enrico Ianniello – autore della traduzione e dell’adattamento per il «Fronte del porto» che presentano il Bellini e lo Stabile di Catania – ambienta tutto questo a Napoli e lo trasporta negli anni Ottanta. Ma il risultato – un po’ come avveniva nel 2007 con «Chiòve», l’adattamento, firmato dallo stesso Ianniello, di «Piove a Barcellona» del catalano Pau Miró – è un bozzetto realistico di maniera, e tanto minimalistico quanto scontato ed evasivo.
Per intenderci, Cutolo compare soltanto nelle note con cui Ianniello illustra e motiva il proprio adattamento. Nel testo non ve n’è traccia. E i piccioni viaggiatori del film vengono – inopinatamente e incongruamente – sostituiti con i cardellini, che di solito non trovano su un terrazzo il loro habitat preferito e non fanno del volo sulle lunghe distanze la loro attività principale. A meno che non si voglia alludere al nome, appunto «cardillo», che nel gergo della malavita si appioppa a colui che «canta», ovvero al delatore.

Da sinistra, Antimo Casertano, Daniele Russo, Ernesto Lama e Sergio Del Prete in un altro momento dello spettacolo, diretto da Alessandro Gassmann

Da sinistra, Antimo Casertano, Daniele Russo, Ernesto Lama e Sergio Del Prete
in un altro momento dello spettacolo, diretto da Alessandro Gassmann

Dall’altra parte, la violenza si esprime attraverso un’autentica valanga di maleparole, e parimenti ovvie. Leggendo il testo, ho contato, per fare qualche esempio e se non ricordo male, 4 «rutt’ ‘e mazzo», 4 fra «jate» e «jatevenne a fanculo», 2 «strunzo», 1 «bucchine», 1 «vafammocca». E per quanto riguarda il sempreverde «cazzo», a un certo punto mi sono stancato di contare. Forse Ianniello, che per molti versi è persona stimabilissima, avrebbe dovuto tener presente la lezione di un certo Raffaele Viviani, la cui scrittura teatrale, pur violenta quant’altre mai, non ricorre in alcun caso al turpiloquio.
Dal canto suo, Alessandro Gassmann, nella doppia veste di regista e di scenografo, cerca di fare del proprio meglio. E belle e funzionali risultano in proposito le «dissolvenze incrociate» che realizza la combinazione fra le quinte mobili in forma di fiancate di container e gli scorci dell’acqua del porto e delle banchine con le gru proiettati sul fondale. Così come, per offrire un altro esempio, assai opportuna si rivela, sul piano dello straniamento, l’invenzione iniziale di mostrare la caduta di Peppe Caruso, che i malavitosi scaraventano giù dal terrazzo, sotto specie di un’immagine fugace sul velatino che chiude il boccascena.
Marcati scompensi s’avvertono, invece, per quanto concerne la recitazione. Molto persuasiva è la prova che fornisce Daniele Russo nel ruolo di Francesco Gargiulo: evitando intelligentemente ogni tentazione d’imitare in un quasiasi modo l’inarrivabile modello costituito dal Terry Malloy di Marlon Brando, disegna del proprio personaggio un ammirevole ritratto che fonde (e confonde) l’avvilimento dei vinti e le assonnate movenze tipiche dei pugili rimasti suonati per i troppi pugni presi. E accanto a lui, citerei Ernesto Lama, un Giggino Compare, il boss, a sua volta sospeso fra la nevrosi e l’esibizionismo. Per il resto s’alternano un gridare scomposto e, al contrario, la troppo frequente inaudibilità di certe battute.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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