NAPOLI – Riporto la rievocazione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».
Ho visitato la mostra «I De Filippo – Il mestiere in scena», curata con amore da Carolina Rosi e Tommaso De Filippo, a qualche giorno di distanza dal clamore dell’inaugurazione. E subito mi son ritrovato davanti il «mio» Eduardo. Ecco, per esempio, i grappoli di sedie pendenti dall’alto de «Le voci di dentro». E fu proprio quella commedia a innescare il rapporto, per molti versi straordinario, fra me e lui.
Eduardo, che non avevo mai incontrato di persona, replicava al San Ferdinando il «Natale in casa Cupiello» che aveva portato al Festival nazionale de «l’Unità» del 1976. E succedevano cose davvero mai viste: i napoletani che, pur d’accaparrarsi un biglietto, erano disposti a far la fila dalle dieci di sera alle dieci del mattino, perfino sotto la pioggia; e i bagarini che facevano affari d’oro e, addirittura, le lettere di raccomandazione di personaggi influenti (addirittura di qualche ministro) affinché si trovasse una poltrona purchessia per i loro protetti. Insomma, ce n’era più che abbastanza perché Alberto Bertini, il capo degli spettacoli di «Paese Sera», mi chiedesse un pezzo sulla faccenda.
Mi feci, dunque, un giro per Napoli, e ne interrogai alcuni dei personaggi a vario titolo emblematici. E tutti, più o meno, diedero una risposta del genere: qua può essere che da un momento all’altro (l’età c’è, la salute vacilla) Eduardo muore, e questa, allora, può essere ch’è l’ultima volta in cui possiamo vederlo recitare. Io, certo, cercai, come si dice da noi, d’«indorare la pillola», e scrissi solo che la gente aveva paura che Eduardo, stanco e malato, fosse in procinto di ritirarsi. Ma lui, Eduardo, non si lasciò ingannare. E mandò al giornale una lettera in cui, fra l’altro, dichiarava di trovare strano che io avessi dato spazio all’errore di quanti scambiavano la malattia del personaggio, Luca Cupiello, per quella di chi lo interpretava.
Ma, questa è la cosa che mi saltò subito agli occhi, la lettera cominciava con un «Caro Fiore». E da quell’attacco io capii che Eduardo – scrivendo a me, e non al direttore del giornale (ed era già un caso raro che avesse scritto una lettera a un giornale, lui che dall’alto della sua posizione non doveva certo rispondere a chicchessia) – aveva ritenuto degno di attenzione l’oscuro cronista che io ero allora. Infatti, mentre stavo a Torino, dov’ero andato a trascorrere le feste di fine anno con i miei due fratelli, il 6 gennaio del ’77 mi raggiunse un telegramma di Ennio Simeone, il capo della redazione napoletana di «Paese Sera», che diceva: «Sabato 8 prima di Eduardo che vuole parlarti».
La «prima» in questione era per l’appunto quella de «Le voci di dentro». E appena arrivato a Napoli, nelle prime ore della mattina, da una cabina telefonica della Stazione Centrale chiamai subito Isabella Quarantotti, la moglie di Eduardo: «Suo marito dice che mi vuole parlare. Dove e quando?». E lei: «Stasera alle sette al San Ferdinando». Due ore prima del debutto.
Al San Ferdinando Eduardo mi venne incontro uscendo dal camerino. E io, senza neanche dargli la buonasera, subito lo aggredii: «Edua’, voi adesso mi dovete dire in faccia se quello che avete scritto lo pensate veramente». Lui piegò leggermente la testa da un lato, mi guardò di sottecchi e poi, dopo una delle sue celebri pause, disse: «Io quella lettera l’ho dovuta scrivere per forza, altrimenti – voi lo sapete com’è fatto, l’ambiente teatrale – già mi avrebbero scavato la fossa. Ma figuratevi se non ho capito». Dopo di che mi mise una mano sulla spalla e mi accompagnò sul palcoscenico. E lì – giusto sotto i grappoli delle sedie «scassate» dei Saporito appesi alla graticcia – «Le voci di dentro» si trasferirono nella carne viva delle sue parole: «I brutti tempi che viviamo rendono questa commedia ancora più attuale di quanto fosse nel ’48»; e ancora: «Il significato della commedia sta tutto nel sogno della cameriera Maria, che non a caso ho messo proprio all’inizio. E ci stanno pure tutti i personaggi». Tanto che, aggiunse Eduardo, lui aveva scelto gl’interpreti sulla base dell’aderenza del loro fisico agli elementi metaforici di quel sogno, a partire dal famoso «verme bianco cu ‘a capuzzella nera».
Nacque così il rapporto straordinario di cui ho detto all’inizio. Di modo che, poniamo, fui anch’io nella piccolissima cerchia dei privilegiati che conobbero – nella villa di Sergio Bruni, in viale Maria Cristina di Savoia – le riunioni conviviali a cui parteciparono, fra gli altri, Eduardo e Pupella Maggio. Ma l’acme (o, meglio, il punto di arrivo) questa «koinè» di sensibilità culturali e vincoli amicali lo raggiunse, per quanto mi riguarda, in occasione della prima uscita pubblica di Eduardo dopo la sua nomina a senatore a vita: quella prima uscita pubblica che il neo senatore volle dedicare ai ragazzi del carcere minorile «Filangieri».
Appena si diffuse la notizia di questa sua decisione, subito mi arrivò l’immancabile telefonata di Bertini: «Perché non gli fai una bella intervista?». E io: «Guarda, già era Eduardo, adesso è anche senatore e per giunta ha appena subìto un delicato intervento chirurgico… Non credo che abbia molta voglia di parlare con i giornali. Comunque, va bene, ci provo». Così, la mattina del 12 ottobre dell’81, mi presentai di buon’ora al «Filangieri». E manco a dirlo, ero in compagnia di Sergio Bruni: ci fotografarono pure, me e Sergio, proprio mentre stavamo per entrare, sullo sfondo di un manifesto del Pci. Ed ecco che cosa successe.
Dopo che Eduardo ebbe visitato il carcere, ci ritrovammo tutti e tre – lui, Bruni ed io – nella stanzetta che costituiva, in pratica, i camerini del teatrino appena ristrutturato dagli stessi ragazzi del «Filangieri». E fra i due grandi amici ci fu un commosso abbraccio, fortissimo e ripetuto tre volte. Io rimasi muto e imbarazzato, anche perché non sapevo con quale appellativo rivolgermi a Eduardo. E allora lui – s’era operato di cataratta solo venti giorni prima, e aveva il vetro destro degli occhiali dipinto di nero – mi guardò un momento e mi disse: «Io mi chiamo sempre Eduardo. E parliamoci col tu, come ci siamo sempre parlati».
Non era vero, non ci eravamo mai parlati col tu. E credetti, quindi, che mi avesse preso per un altro. Mi bloccai e domandai, sommesso: «Eduardo, ma voi mi avete riconosciuto? Io sono Fiore, di “Paese Sera”». E lui: «Certo che vi ho riconosciuto… anzi, mò mi sbagliavo: ti ho riconosciuto, perché noi ci siamo sempre parlati col tu». La cosa si ripeté altre due volte. E al mio terzo «Eduardo, ma voi mi avete riconosciuto? Io sono Fiore, di “Paese Sera”», andò su tutte le furie: «Ma quante volte te lo debbo ripetere che lo so benissimo chi sei? E ti ho detto parlami col tu». Capii, allora, che quella era un’investitura. E infatti scrissi l’intervista – che «Paese Sera» pubblicò nella prima pagina dell’edizione nazionale – rivolgendomi a Eduardo col tu.
Enrico Fiore
(«Corriere del Mezzogiorno», 15/11/2018)
Bellissimo e commovente questo ricordo! Eduardo ha lasciato una nostalgia struggente in chi non l’ha conosciuto personalmente, mi figuro in lei che invece ha avuto questo privilegio e gli “ha parlato col tu”.
Con la mia Compagnia, verremo tutti a Napoli a visitare la mostra sui De Filippo: ci stiamo preparando come quando si va in pellegrinaggio. Fin d’ora, siamo emozionati.
Buona giornata, Enrico.
Rosa Startari
Cara Rosa,
fatemi sapere quando verrete a visitare la mostra. Magari, se sarò a Napoli e libero da impegni pressanti, potrò accompagnarvi.
Cordiali saluti.
Enrico Fiore
Sarebbe bellissimo! Già la Compagnia la conosce, discutiamo spesso dei suoi articoli!
Ne sarei davvero felice.
Stiamo organizzando per venir giù il 17 febbraio che è domenica; nei programmi, andremo a visitare la mostra il 18 febbraio, lunedì mattina, quando speriamo ci sia un’affluenza più ridotta. E poi, Lunedì pomeriggio torniamo a Milano.
Spero proprio che lei possa esserci. Cosa faccio, glielo rammento al principio del nuovo anno?
Grazie.
Rosa Startari
Certo, me lo ricordi al principio del nuovo anno. Ma spero che ci sentiremo prima, per scambiarci gli auguri di fine 2018. E di auguri abbiamo proprio bisogno, noi che ormai – nei tempi di barbarie che ci toccano – siamo sempre più simili ai carbonari di una volta.
A presto.
Enrico Fiore