Addio a Carlo Giuffré, un fuoriclasse diviso in due

Una delle ultime immagini di Carlo Giuffré, spentosi sulla soglia dei novant'anni

Una delle ultime immagini di Carlo Giuffré, spentosi sulla soglia dei novant’anni

NAPOLI – Riporto il ricordo di Carlo Giuffré pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

La straordinaria carriera d’attore di Carlo Giuffré s’è svolta, dall’inizio alla fine, nel segno di una scissione che sembrava ogni volta irreparabile ma, poi, veniva – anche a distanza di molti anni – puntualmente composta. E tanto fin da quando, dopo due stagioni, lasciò la compagnia di Eduardo De Filippo con la quale, fresco di studi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, aveva debuttato nel 1949. Perché si combattevano in lui il fisico avvenente e il fascino convenzionale di un attor giovane da manuale e un’istintiva spinta verso la distorsione grottesca.
La prima affermazione venne nel 1953, allorché fu scritturato da Anna Magnani per la rivista di Michele Galdieri «Chi è di scena?». E da quel momento si susseguirono, tanto per citare solo alcuni dei testi da lui interpretati, «La nuova colonia» di Pirandello, «Romagnola» di Squarzina, «Sapore di miele» di Delaney, «La fantesca» di Della Porta e, per restare in ambito napoletano, «Annella di Portacapuana» di D’Avino. Finché, nel 1963, arrivò la svolta decisiva: l’approdo nella mitica «Compagnia dei Giovani» De Lullo-Falk-Valli-Albani.
In quella Compagnia Carlo Giuffré rimase per ben otto stagioni, appunto riuscendo a risolvere l’antinomia fra le sue due facce d’interprete: fu, poniamo, il primo attore nei «Sei personaggi in cerca d’autore», Albino ne «La bugiarda» di Diego Fabbri, Guido Venanzi ne «Il giuoco delle parti», Michele in «Metti una sera a cena» di Patroni Griffi, Fausto Viani ne «L’amica delle mogli», il terzo Pirandello dopo i due citati, Tesman in «Hedda Gabler» di Ibsen e il Duca d’Orange nell’ultimo grande spettacolo prodotto dai «Giovani»: «Egmont» di Goethe e Beethoven per la regia di Luchino Visconti.
Ma ecco di nuovo la scissione: Carlo si diede (e la faccenda durò non poco, tre anni buoni) a un cinema di terz’ordine, interpretando una serie di commediole sexy di cui resta, purtroppo, una triste memoria. E meno male – ecco di nuovo la composizione – che fu poi capace di convincere il fratello Aldo a formare una loro compagnia. La compagnia che allestì – con lo spettacolo composto dai due atti unici di Petito «Francesca da Rimini» e «Pascariello surdato cungedato» – quello che resta, secondo me, il più strepitoso successo comico della storia del teatro napoletano del secondo dopoguerra.
Seguirono, nell’arco di quindici anni, altri successi come «A che servono questi quattrini?» di Armando Curcio, «Quando l’amore era mortal peccato» di Trinchera e «I casi sono due» ancora di Curcio. Un tarlo, però, rodeva Carlo Giuffré: voleva a tutti i costi tornare alle origini, voleva portare in scena i testi di Eduardo De Filippo. Il quale, dal canto suo, aveva anche lui, e ben più tormentosa, la memoria delle commediole sexy di cui sopra. E quindi rispondeva sistematicamente con un no deciso ad ogni richiesta avanzata in proposito dai Giuffré.

Carlo Giuffré nella famosa scena del balcone di «Questi fantasmi!»

Carlo Giuffré nella famosa scena del balcone di «Questi fantasmi!»

Una volta Carlo mi chiese accoratamente d’intercedere per loro: «Parlaci tu, a te ti sta a sentire». E io lo accontentai. Nel corso della telefonata che feci a Eduardo per scambiarci gli auguri di fine anno, preparai accuratamente il terreno lodando (d’altronde senza sforzo) la sempre più evidente maturità d’attore di Luca e quindi piazzai il colpo: «A me pare che ormai se la meritino, i fratelli Giuffré, qualcuna delle commedie di Eduardo». Mi rispose un silenzio tombale, credetti che fosse caduta la linea. E invece Eduardo si fece risentire, ma parlando di tutt’altro. La mia richiesta l’aveva semplicemente ignorata.
Finalmente, però, Carlo Giuffré, separatosi dal fratello e morto Eduardo, riuscì a raggiungere la tanto agognata meta. E si ripresentò ancora una volta la scissione, sia pure in forma nuova: Carlo non riusciva ad evitare l’imitazione dell’Eduardo attore e contemporaneamente avvertiva l’esigenza di superare il naturalismo di Eduardo in quanto autore. Ma ora era pienamente cosciente dei propri mezzi, Carlo Giuffré. E superò quel dissidio fra le due parti di sé con alcune delle più intelligenti e innovative messinscene dei capolavori di Eduardo che si ricordino.
Faccio solo l’esempio di «Natale in casa Cupiello». Nel terzo atto, Nennillo non veniva mandato – come nel testo originale – a spedire un telegramma a Nicolino, ma soltanto a comprare le medicine per il padre. Nicolino, in altri termini, era già stato espulso dall’«organigramma» familiare ed esistenziale coniato da Lucariello. Infatti non tornava, come accade ancora nel testo originale. E Carlo Giuffré ci diceva, così, che – quando lo stesso Lucariello unisce le mani di Ninuccia e di Vittorio Elia – sa benissimo che quel giovane non è il genero. Insomma, Luca Cupiello ha preso atto della rottura dell’ordine da lui perseguito e ne trae le logiche conseguenze sul piano della realtà, prima di tornare a rifugiarsi nell’universo chiuso del Presepe simbolico grande come il mondo. Non a caso, del resto, dopo che Ninuccia gliel’aveva rotto, quello vero, la sua minaccia di abbandonare la famiglia s’era tradotta nelle parole seguenti, anch’esse inventate rispetto al copione di Eduardo: «Me ne vaco ‘ncopp’ ‘o presepio, mmiez’ ‘e pasture».
Ma, per chiudere, mi sia consentito un ricordo personale. Dopo il fallimento di «Paese Sera», io finii letteralmente in mezzo a una strada. E intervennero solo in due, fra i teatranti napoletani: Luisa Conte, che mi offrì di fare l’addetto stampa del Sannazaro, e Carlo Giuffré, che patrocinò la mia assunzione a «Il Mattino» presso l’allora direttore Franco Angrisani, del quale era molto amico. Lo fece, naturalmente, attraverso una vera e propria messinscena teatrale, organizzando una cena al ristorante «Peppino», in via Palepoli, e invitando a quel simposio «strumentale» sia Angrisani che me. Però stavo sulle spine, giacché, per tutta la cena, non ci fu il minimo accenno alla questione che mi premeva. Solo che, a un certo punto, Giuffré si alzò, fece alzare anche Angrisani e, presolo sottobraccio, se ne andò con lui dal ristorante, senza tornare più. Mi telefonò il giorno dopo, per dirmi laconico: «Ho fatto quello che dovevo e potevo fare».
Ciao, Carlo. Possa risplendere su di te lo stesso sole accecante con cui – in un commovente tributo d’affetto per quell’Eduardo uomo che, tutta la vita, s’era lamentato del freddo e del gelo – accarezzasti Luca Cupiello morente.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 2/11/2018)

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