Stavolta la «cartolina di Napoli» viene spedita da Forcella

Da sinistra, Giorgio Pinto, Greta Domenica Esposito e Angela Garofalo in un momento di «Forcella strit» (le foto che illustrano l'articolo sono di Luciano Ferrara)

Da sinistra, Giorgio Pinto, Greta Domenica Esposito e Angela Garofalo in un momento di «Forcella strit»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Luciano Ferrara)

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Stavolta non faccio alcuna fatica, l’analisi e la valutazione di «Forcella strit» – lo spettacolo (testo di Maurizio Braucci, regia di Abel Ferrara) che ha aperto la stagione del Trianon – me le offre in sintesi, sul proverbiale piatto d’argento, il dialogo seguente: Direttore di sala: «Volete spiegare ai nostri spettatori come funziona l’economia del vicolo a Forcella?» – Rosanna: «Eh, il contrabbando di sigarette è finito! Prima ci campavamo famiglie e famiglie, ma da quando è scoppiata la guerra in Montenegro, il traffico si è ridotto perché le sigarette non arrivano più da là. E le famiglie di Forcella si stanno spostando…» – Direttore di sala: «In che senso?» – Rosanna: «Nel senso che vanno su altre attività». – Direttore di sala: «E quali?» – Maria: «Meglio che non parliamo di certe cose…».
Ecco, lo spettacolo in questione non denuncia, si astiene. Non evoca gli eventi della realtà chiamandoli con il loro nome, non li evoca e basta. Non ricorre al bisturi, si serve di una piuma. E insomma – dovendo raccontare in forma di musical la storia di Forcella fra il 1990 e il 2004 – non si attesta sul versante accidentato dell’indagine socio-politica, ma si rifugia nel nido consolante dell’apologo buonista e della favola sentimentale, del resto preannunciati dall’assunzione come logo, in locandina e sul palcoscenico, dell’antico motto del quartiere: «Siamo nati per fare il bene».
Così, per intenderci, non ricorrono nemmeno una volta, nemmeno una, le parole droga e spaccio. Se Maria parla dei giovani costretti ad «arrangiarsi», si limita ad aggiungere che «a volte» prendono «brutte strade». Se una bomba distrugge il negozio di barbiere di Eduardo Confalone, l’ha messa il fuochista Pasquale Pommella per vendicarsi delle corna che appunto con il barbiere gli ha appioppato sua moglie Rosinella. Se Mario, il figlio di Pommella, sta per sparare a Tonino, colpevole di uno sgarro verso la camorra, a impedirlo basta che arrivi il padre e gli gridi: «Ma che stai facendo?». Se Mina muore di cancro, si specifica che è morta «di quel brutto male». E se s’innamorano Renato, timido figlio di nessuno, e Mina, figlia del bottonaio Mariano Gaudioso, li troviamo nelle vesti di novelli Romeo e Giulietta, mentre lei, dal balcone, gli domanda: «Hai visto che bella luna che ci sta?» e lui, da sotto, prima le risponde: «Eh sì, è bella…» e poi dice sottovoce a se stesso: «… è bella come te!».
Non sorprende, allora, che in un simile quadro si affermi che «l’unica vera industria che c’è a Forcella» è «la falsificazione di audiocassette». Non sorprende che l’unico elemento scenografico posto in evidenza sia costituito, a fronte dell’ambiente grigio e neutro montato sul palcoscenico, dai panni multicolori (compreso un reggipetto) stesi ad asciugare davanti ai due palchi di proscenio mentre ben altre «stese» sarebbe il caso di prendere in considerazione. Non sorprende che s’inneggi alla pizza del Trianon e di Michele e alla pizza fritta delle Figliole. E non sorprende, infine, che ci si ammanniscano in serie rivelazioni strabilianti del tipo: a Forcella c’è la Real Casa dell’Annunziata, «i vecchi mestieri, quelli artigianali, stanno sparendo», «siamo un quartiere pieno di giovani ma anche di disoccupati» o, sul piano filosofico-morale, «i figli abbandonati a loro stessi sono più facilmente preda del male», «gli esseri umani sono come ciechi, non si rendono conto di quanto sia prezioso e meraviglioso quello che vivono» e (l’avevano già detto il cameriere Firs de «Il giardino dei ciliegi» e più di recente Raffaele La Capria) «la vita è troppo importante, e noi la viviamo senza renderci conto…».

Un altro momento dello spettacolo, che ha aperto la stagione del Trianon

Un altro momento dello spettacolo, che ha aperto la stagione del Trianon

Nel terzo atto, poi, la «Piccola città» di Thornton Wilder a cui si dichiara ispirato «Forcella strit» (viene di là, in effetti, il personaggio del direttore di sala) diventa la Spoon River di Edgar Lee Masters. E quando uno di quei morti, Mina, esprime il desiderio di tornare fra i vivi ricordando i momenti in cui aveva il suo bambino in braccio, il quadro appare davvero completo: perché Mina, così, viene direttamente apparentata alla Nanninella «’a pezzente» di Don Salvatore Di Giacomo, sopraffino verseggiatore, certo, ma col vizietto di trasferire nel paradiso della pura forma le donne nate nell’inferno dei vicoli.
A questo punto, risulta del tutto superfluo annotare che l’allestimento gronda a sua volta di risaputo e di già visto, a partire dalla pedana girevole su cui si collocano a tratti gli attori e dallo straniamento (meccanico ed esibito) messo in atto da taluni di quegli attori, che escono dalla rappresentazione per interrogarsi al proscenio sulla natura dei rispettivi personaggi o intervengono dalla platea a porre domande o a polemizzare. Occorre, piuttosto, chiedersi a chi giovi l’operazione «Forcella strit», finanziata dalla Regione Campania e varata dalla Scabec.
Giova certamente a Nino D’Angelo, e in quanto direttore artistico del Trianon e in quanto autore delle canzoni («Teng’ ‘o sole», «Ciucculatina d’ ‘a Ferrovia», «Cafè, cafè», «Quale ammore» e «Mamma Preta») che tramano lo spettacolo, talvolta addirittura imponendogli determinati personaggi. Come, appunto, nel caso di Ciucculatina: la venditrice di sigarette che ha qui lo spazio preponderante che molto più plausibilmente sarebbe toccato a un pusher.
Ma mi permetto di credere che invece non giova, l’operazione «Forcella strit», alla crescita sociale e culturale di Forcella. Non le giova perché, in tutta franchezza, si tratta solo di una riedizione della «cartolina di Napoli» in versione «local». Mentre don Angelo Berselli, da dodici anni parroco di San Giorgio ai Mannesi, ha sgranato per «la Repubblica» un intero rosario di sanguinanti piaghe: «Meglio di vent’anni fa? Semmai ora è peggio», «Tutto è in mano a una sorta di malavita disorganizzata», «Il punto è che qui ognuno pensa a sé, tanto che è fallito ogni progetto di associazionismo in rete», «Si dice tanto che c’è omertà. Ma non è omertà, è paura».
D’altronde – a parte la contraddizione stridente di quel Trianon che, pur ribattezzato «Teatro del popolo Trianon Viviani», ospita nel proprio cartellone «Lacreme napulitane» con la regia dello stesso D’Angelo, ossia la sceneggiata che proprio Viviani definì la puttana dell’arte – c’è da considerare che i cambiamenti del mondo, anche i cambiamenti minimi, non si sono mai verificati a partire dalle tavole di un palcoscenico. Fu costretto ad accorgersene perfino un signore che si chiamava Bertolt Brecht. E dalle nostre parti, non si può non ricordare, in proposito, la fine che ha fatto l’Auditorium di Scampia.
Resta, comunque, da chiudere con una nota positiva: nel senso che restano la freschezza e l’entusiasmo dei giovani attori dilettanti in scena, dei quali citerò almeno le divertenti Maria Esposito e Giusy Freccia nel ruolo delle due donne affacciate al balcone. A tutti loro i più sentiti auguri: specialmente, al di là del teatro, di una buona vita.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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4 risposte a Stavolta la «cartolina di Napoli» viene spedita da Forcella

  1. Maurizio Braucci scrive:

    la mia risposta a Enrico Fiore..
    Fiore stronca lo spettacolo Forcella Strit come cartolina inutile e come spettacolo reticente rispetto ai mali del quartiere.. non credo che il nostro sia un capolavoro e ognuno la può pensare come vuole … ma bisogna capire bene le ragioni dell’altro, altrimenti si è intellettualmente disonesti… Il signor Fiore porta ad esempio della sua tesi il fatto che in un dialogo simulato tra il pubblico e gli attori, quando una donna chiede se nel quartiere ci siano bellezza e cultura le viene risposto “Sì, per bellezza abbiamo la pizza, abbiamo quella fritta, quella col pomodoro.. e per cultura io ho due libri a casa, la Bibbia e Robinson Crusoe”, Fiore percepisce questo dialogo come un’esaltazione della cartolina napoletana e non come un modo per dire che a Forcella di bellezza e cultura c’è ben poco (chi glielo spiega ora?). E in un altro dialogo tra gli attori che impersonano degli abitanti di Forcella, quando si spiega l’economia a Forcella nel 1990, viene detto che il commercio delle sigarette sta finendo e che le famiglie si spostano su altre attività.. “Quali?” chiede uno “Meglio non parlarne” risponde l’altra.. bene, Fiore dice che questa è omertà, che dovevamo dire “La droga”, non era abbastanza chiaro per lui.. che si parli poi dell’assenza dei padri nella crescita di tanti ragazzi e invece della presenza dei camorristi come modello (dis)educativo, della rabbia provocata dall’ingiustizia nei giovani e che esplode e li distrugge, al signor Fiore poco importa, lui vuole vedersi confermare quello che già sa e nel modo in cui già sa, viene a sentire se noi lo conosciamo (evidentemente no), imponendoci il modello borghese esaltato dall’esibizione della cultura (quale cultura poi, se non quella di classe?) a cui Fiore appartiene. Non è un caso che citi un prete del quartiere come modello di denuncia sociale (è catto-comunista), che ci ricordi che certe cose sulla vita le aveva già dette Cechov.. insomma ci fa a pezzi perché non siamo come lui, non condividiamo l’ideologia e le formule e le interpretazioni sulla città della sua classe sociale la quale ha tutto chiaro, tutto ha capito al punto che null’altro si possa dire o aggiungere.. che per una volta, almeno io che ho sempre raccontato le responsabilità politiche e sociali dello stato della città, che per una volta si dica anche che nell’uomo e nella donna ci possa essere del buono se questi lo percepiscono, al signor Fiore non importa nulla, questo ennesimo critico a-militante vuole che il mondo si ribadisca ai suoi occhi nei modi che lui sa.. Qual è questa ideologia borghese a cui io mi rifiuto di aderire? E’ quella per cui i territori come Forcella sono compressi nella dicotomia legalità-illegalità, narrandoli bisogna denunciare l’illegalità e inneggiare alla legalità, come Fiore ci chiede di fare.. io invece rifiuto questa ipocrisia e credo che la questione fondamentale riguardi la giustizia e l’ingiustizia sociale, quindi si può essere illegali ma vittime di ingiustizia sociale, cosa che il Signor Fiore rifiuta perché ragiona con la testa della sua classe sociale che sulla legalità (e istituzionalità) si fonda… Per tale ragione non mi sorprende che ci abbia stroncati, questo mette al sicuro la distanza di vedute tra me e lui.. che poi non abbia capito l’idea di base dello spettacolo questo mi dispiace, ma non per me, che non ho certo bisogno di Fiore per avere coscienza delle mia capacità e dei miei limiti (e del mio non appartenere alle lobbies teatrali napoletane, motivo per cui mi si può offendere dicendomi omertoso) , mi dispiace perché è l’ennesima constatazione che a Napoli (e in gran parte del sud) troppi ruoli di responsabilità (critica, amministrativa, educativa etc) siano occupati da persone irresponsabili verso il ruolo che dovrebbero-potrebbero avere e che si riassume nelle famose parole di Calvino “.. cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”.. Fiore vuole che si racconti solo l’inferno, ma un inferno come lo intende lui, un inferno dato dal malaffare di certi ceti sociali (si vende la droga, c’è la camorra..) e senza fare parola delle responsabilità istituzionali ed economiche alla base dell’ingiustizia sociale. Fiore assolve la propria classe, la cultura e le istituzioni da ogni responsabilità di tale inferno, ribadisce e rivendica una posizione più conformistica, manichea, di un rassicurante quadretto di finto impegno e finta denuncia sociale, superficiale ma roboante.. e chiaramente è completamente disinteressato agli aspetti educativi e genitoriali che stanno alla base della violenza, ancor meno al fatto che abbiamo utilizzato una commedia musicale per parlare di temi sociali, psicologici ed esistenziali, del resto ha lui la formula di lettura di ogni cosa e per lui uno spettacolo deve solo esibirla, non osare discuterla, come purtroppo in tanti saranno costretti a fare per non inimicarsi la critica. Da buon autoritario, questo vecchio signore fa bene il suo lavoro… e in parte, in minima parte, gli sono grato, perché sicuramente c’è anche qualche piccola verità nel cumulo di falsa coscienza che anima la sua stroncatura, una falsa coscienza che gli serve a tenere sopita la sua coscienza di fronte al male intorno… Buonanotte.
    Maurizio Braucci

  2. Raffaele Di Florio scrive:

    Gentile Fiore,
    Il gusto personale non si discute e nemmeno vorrei convincerla del contrario nonostante il suo articolo è distante dalla mia percezione del lavoro teatrale qui in oggetto.
    Ma le scrivo perché credo che Lei abbia “peccato” (brutto termine, ma ci sta se Lei tira in ballo don Angelo Berselli) di “distrazione”.
    Il suo articolo “Pecca di distrazione” se Lei evidenzia alcuni dialoghi, ma omette, di fatto, ciò che il testo racconta;
    il suo articolo “pecca di distrazione” se scrive: “l’allestimento gronda di risaputo”, ma si “astiene” (termine a lei caro) nello scrivere che i panni “stesi”, che fanno tanto “cartolina”, sono subito dichiarati dai personaggi come “oleografia coatta”;
    il suo articolo “Pecca di distrazione” quando giudica l’intervento degli attori e il loro straniamento dal personaggio ad un puro espediente “meccanico ed esibito”;
    il suo articolo “Pecca di distrazione” nell’ “astenersi” di scrivere che la trama “gira” intorno alla frase «Siamo nati per fare (il) bene», ma la stessa frase viene usata nel suo articolo come escamotage buonista;
    Gentile Fiore,
    per quanto la stimo, la invito a”rivedere” il lavoro teatrale in scena il prossimo fine settimana con “più” spirito critico e “meno” ideologico.

    con la stima di sempre
    Raffaele Di Florio

  3. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Di Florio,
    pubblico questo Suo “commento”, senza cambiarne neppure una virgola, solo perché sono una persona democratica, e questo sito è nato soprattutto con lo scopo di favorire una libera discussione circa gli eventi teatrali.
    I Suoi giudizi lasciano il tempo che trovano, perché Lei, in quanto scenografo dello spettacolo in questione, è in tutta evidenza di parte.
    Comunque, posso pregarLa di un favore? La prossima volta che mi scrive cerchi di scrivermi in italiano. Magari può farsi dare qualche lezione dal suo drammaturgo Maurizio Braucci, che almeno in questo dovrebbe essere all’altezza del compito.
    Enrico Fiore

  4. Enrico Fiore scrive:

    Vale anche per Lei la premessa che ho fatto nel pubblicare il “commento” di Raffaele Di Florio: accolgo il Suo sproloquio, confuso e tendenzioso insieme, solo perché sono una persona democratica, e questo sito è nato soprattutto con lo scopo di favorire una libera discussione circa gli eventi teatrali.
    Tralascio, ovviamente, di prendere in considerazione gl’insulti che mi rivolge sul piano personale, senza, peraltro, che Lei sappia niente di me, della mia vita e del mio percorso professionale e politico. E mi limito, quindi, ad informarLa che sono tanto “borghese” da essere stato cacciato da taluni giornali, e ridotto alla fame, solo perché ero comunista, da essere stato candidato del Manifesto alle elezioni politiche del 1972, da aver messo in gioco la pelle affiancando in Grecia le forze di opposizione al regime dei colonnelli e da aver fatto parte della guardia armata di Cunhal durante la cosiddetta “rivoluzione dei garofani” in Portogallo.
    Questo ed altro, del resto, può leggerlo nella sezione “L’autore” del sito. Chiudo augurandoLe non la “buonanotte”, ma di stare un po’ più sveglio. E Le rivelo (Lei non c’era, naturalmente) il grido che l’immenso Leo de Berardinis, piegato in due dalla rabbia e dal dolore, lanciò agli spettatori in una lontana sera al Parco Virgiliano: “Vivete, coglioni, vivete!”.
    Enrico Fiore

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