Sei Personaggi in cerca di stilista

Da sinistra, Caterina Filograno, Anahì Traversi e Igor Horvat in un momento di «Sei personaggi in cerca d'autore» (le foto che illustrano l'articolo sono di Masiar Pasquali)

Da sinistra, Caterina Filograno, Anahì Traversi e Igor Horvat in un momento di «Sei personaggi in cerca d’autore»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Masiar Pasquali)

LUGANO – Entrando in sala, gli spettatori trovano un attrezzista che sta sistemando sulle tavole del palcoscenico una lunga striscia di moquette rossa, in pratica una passatoia, che va dal fondale al proscenio debordando in platea. La sistema con cura meticolosissima, addirittura maniacale. Fino a spianarne col ferro da stiro ogni gibbosità. E tanta cura si spiega perfettamente: come vedremo, quel «red carpet» è il personaggio principale, il vero e proprio protagonista dello spettacolo.
Parlo dell’allestimento di «Sei personaggi in cerca d’autore» che, per la regia di Emiliano Masala, ha aperto la stagione di LuganoInScena nel monumentale centro polifunzionale LAC (Lugano Arte e Cultura) mentre – coincidenza non poco significativa – vi è in corso un’altrettanto monumentale mostra di Magritte. L’azione si svolge in prevalenza sul «red carpet» in questione. Che richiama subito alla mente la passerella di una sfilata di moda: su cui, pensiamoci un attimo, viene ospitato un duello all’ultimo sangue, pur senza un vincitore e uno sconfitto: il duello tra il corpo delle indossatrici (un corpo neutro, osservate lo sguardo assente e fisso delle modelle) e la forma (i vestiti eclatanti che mettono in mostra).
In breve, quella striscia di moquette rossa che domina la scena di Giuseppe Stellato indica il confine fra l’essere (gli attori che sostano al di fuori di essa in attesa d’esservi accolti) e l’apparire (i loro colleghi che già vi si muovono nelle vesti dei personaggi). E davvero non avrei saputo immaginare un modo più icastico d’inquadrare il problema centrale e decisivo costituito dal testo di Pirandello. A proposito del quale ripeto quanto in varie occasioni precedenti mi è capitato di scrivere.
Qui siamo di fronte a un’evidente e dichiarata impossibilità del dramma: in quanto si oscilla fra la presenza immanente del tirannico e onnivoro «io» strindberghiano (che incarna la negazione aprioristica di qualsiasi rapporto tra i personaggi e, perciò, di qualsiasi dialogo autentico) e il continuo ricorso al procedimento analitico tipico di Ibsen (che, privilegiando il passato, determina a sua volta una non meno aprioristica sconfitta dell’azione). E basta, al riguardo, considerare la vera e propria battuta tematica che pronuncia il Figlio: «Signore, quello che io provo, quello che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei al massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me stesso. Non può dunque dar luogo, come vede, a nessuna azione da parte mia».
Del resto, è sin troppo palese la vicinanza del Padre al personaggio protagonista dell’«Enrico IV»: un testo che, scritto non a caso nello stesso anno in cui vide la luce «Sei personaggi in cerca d’autore», il 1921, si fonda sul disperato e fallimentare tentativo d’imprigionare la vita, ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per l’appunto in una forma, unica, per sempre data e per sempre riconoscibile e immodificabile.
Di tanto risulta espressione, e ce ne offre una sintesi perfetta, la battuta, che non mi stancherò mai di citare, rivolta per l’appunto da Enrico IV al presunto Vescovo Ugo di Cluny: «Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese, quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti, così sfuggita da voi».
In questo, allora, consisté l’autentica rivoluzione determinata da «Sei personaggi in cerca d’autore»: in un colpo solo mise in scena la crisi della società borghese, la crisi del teatro di rappresentazione che di quella società era un’espressione diretta e inequivocabile e, infine, la crisi degli stessi che professionalmente il teatro lo fanno, a partire, ovviamente, da quel Direttore-Capocomico, tanto supponente quanto nevrotico e inconcludente, e da quegli attori, che incarnano il paradigma, insieme divertente e impietoso, di uno sclerotico ambiente teatrale sospeso fra presunzione, retorica e analfabetismo culturale. Il tutto alla luce dell’urgere implacabile di ciò che possiamo sinteticamente definire la libertà morale e intellettuale dell’individuo.

Ancora Anahì Traversi e Igor Horvat in un altro momento dello spettacolo, che ha aperto la stagione di LuganoInScena

Ancora Anahì Traversi e Igor Horvat nello spettacolo che ha aperto la stagione di LuganoInScena

Ebbene, Masala illustra e sottolinea tutto questo mediante una serie d’invenzioni tutte pregnanti e convincenti. A cominciare dallo spazio maggiore riservato al Direttore-Capocomico, che qui, per gran parte dello spettacolo, gironzola fra gli spettatori nella sala illuminata e non esita, più d’una volta, a chiamare «cani» i suoi attori. Insomma, non è tanto il regista, quanto uno qualunque di noi, che siamo investiti dagli stessi dilemmi e, spesso, assistiamo infastiditi all’approssimazione con cui vengono rappresentati. E infatti sarà a lui, a quest’inedito, straripante e, insieme, confuso «intellettuale», che toccherà il finale gelido (e tuttavia coinvolgente) immaginato nell’occasione.
Solo al centro dello spazio vuoto, mentre s’abbassano le luci, mormora: «Non ho più tempo». E poi prende a srotolare di nuovo, a calci, la striscia di moquette che, riavvolta, era stata riposta sul fondo, fino a ricacciarne il bordo anteriore in platea urlando «Pirandello! Pirandello! Pirandello!». Mentre dall’alto piovono sfarfallando le pagine del testo, come foglie secche da un albero malato.
Aggiungo, quindi, che l’aspetto interessante di quest’allestimento consiste nel fatto che procede, contemporaneamente, su due registri espressivi opposti: quello simbolico e quello di un realismo minimo, ordinario e persino brutale, che costituisce una strenua ed efficacissima sottolineatura per contrasto del primo: vedi, tanto per fare solo qualche esempio, la mano del Padre che sosta vorace su una natica della Figliastra, la pantomima dai marcati toni lesbici che quest’ultima inscena con Madama Pace e il pesante accento pugliese attribuito alla Madre. Laddove il personaggio inventato dell’assistente alla regia, pur balbettando nel leggere le didascalie, non si perita di uscirsene con la lettura di una sua strampalata poesia, alla ricerca, pure lui, di una Forma che lo illuda.
Qualche scompenso si rivela, invece, circa la prova complessiva fornita dagl’interpreti. I migliori, accanto al come al solito inappuntabile Alberto Astorri (il regista), mi sembrano Igor Horvat (il Padre), Tatiana Winteler (Madama Pace) e Giuseppe Aceto (appunto l’assistente alla regia).
Ma si tratta di un appunto marginale. Ciò che qualifica questo spettacolo come uno dei pochissimi necessari che ho visto negli ultimi tempi sta nelle righe finali delle note di regia di Masala: «Pirandello stimola una ricerca, si può non comprenderlo al primo incontro, si può esserne saturati, si può anche avvertirne una distanza dal proprio modo di vivere la vita e il teatro. Però, ciascuno a suo modo, almeno io penso, i conti con Pirandello si ritrova a farli, in palcoscenico o di fronte alla propria coscienza di “animali di teatro”».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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