Un Don Giovanni donna alle prese con lo specchio

Da sinistra, Evandro Dos Reis, Simona Boo, Petra Magoni, Mama Marjas ed Hersi Matmuja in un momento di «Don Giovanni di Mozart secondo l'Orchestra di Piazza Vittorio» (le foto che illustrano l'articolo sono di Paul Bourdrel)

Da sinistra, Evandro Dos Reis, Simona Boo, Petra Magoni, Mama Marjas ed Hersi Matmuja
in un momento di «Don Giovanni di Mozart secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Paul Bourdrel)

NAPOLI – S’intitola «Don Giovanni di Mozart secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio» lo spettacolo che ha aperto la stagione del Bellini. E dunque, viene dichiarato esplicitamente e preventivamente che non si tratta del «Don Giovanni» di Mozart, bensì di una sua rielaborazione. Ma non è questo il punto, di rifacimenti di capolavori del passato son lastricati, nonché le strade, persino i più sperduti viottoli del teatro. Ciò che distingue lo spettacolo in parola e ne costituisce il valore è che la «natura» dell’Orchestra di Piazza Vittorio coincide perfettamente con quella di Mozart e del gran personaggio da lui messo in musica.
Come sappiamo, l’Orchestra di Piazza Vittorio è un ensemble multietnico. Qui, difatti, c’imbattiamo nella cantante reggae Mama Marjas (Zerlina), nel cubano Omar Lopez Valle (Leporello), nella cantante lirica di origine albanese Hersi Matmuja (Donna Elvira), nel brasiliano Evandro Dos Reis (Don Ottavio) e nel tunisino Houcine Ataa (Masetto). E l’impasto di sonorità e di ritmi che ne deriva riporta subito alla considerazione che il cardine dell’estetica mozartiana e l’approdo più rilevante della carriera del Salisburghese consistettero proprio nell’abolizione dei confini stilistici posti nell’epoca del barocco fra musica teatrale, sacra e da camera.
Parlo, insomma, della libertà espressiva: quella che si riscontra, per l’appunto, nella partitura del «Don Giovanni», in cui – tanto per fare un esempio – compare un’ouverture che alterna gli accordi gravi e l’allegro, adottando una forma che s’identifica in tutto e per tutto con la «doppiezza» del personaggio protagonista.
A proposito di Don Giovanni, infatti, non si può fare a meno di ricordare ancora una volta il ritratto insuperabile che ne disegnò Giovanni Macchia: «La leggenda di Don Giovanni sconfina da tutte le parti. Ha accenti comici ma contiene in sé qualcosa di sovrannaturale e di miracoloso […]. È una leggenda che si accende di contrasti. C’è lo sprezzatore d’ogni parola e d’ogni fede. Dall’altra parte, l’amore costante, ostinato. C’è il riso e il delitto, il piacere confinato nei limiti più angusti del senso, e il dolore».
In breve, Don Giovanni è come la vita, muore non appena si determina. E si spiega così il fatto che quel mito sia stato tanto presente nel teatro, trascorrendo da «El burlador de Sevilla», il testo di Tirso de Molina che in qualche modo costituì nel Seicento l’atto di nascita ufficiale del personaggio, a «Il convitato di pietra» del Perrucci e di Puskin, dai canovacci dei comici dell’Arte al «Dom Juan» di Molière. È accaduto perché, giusto, il teatro viene perennemente costretto, dalla sua natura, a fingere la vita nel momento stesso in cui vive.
Ecco, allora, che lo spettacolo in scena al Bellini – guidato dall’agile regia di Andrea Renzi e garantito dalle sapienti elaborazioni musicali di Mario Tronco, Leandro Piccioni e Pino Pecorelli – procede nel solco di un oltremodo significante accumularsi di spiazzamenti progressivi. A cominciare dal fatto che Don Giovanni è interpretato da una donna (Petra Magoni) e che la sua vicenda risulta ambientata, occhieggiando gli anni Venti, in una sorta di Cotton Club, con lo stesso Don Giovanni nei panni di un altrettanto immaginario Cab Calloway.

Da sinistra, Mama Marjas, Petra Magoni, Simona Boo e Andrea Pesce in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Mama Marjas, Petra Magoni, Simona Boo e Andrea Pesce in un altro momento dello spettacolo

Attenzione, però. Quell’ambiente è dominato da un enorme specchio rotondo appeso a mezz’aria. Rappresenta, in pratica, l’occhio dell’inconscio e della memoria di Don Giovanni, accogliendo, poniamo, la proiezione di un suo incontro amoroso con Donna Anna e, in sincronia con le cifre che Leporello tira fuori dal suo catalogo, delle facce ingrugnate delle donne sedotte e abbandonate dal «burlador». Ma poi, al di là di tale riferimento all’impianto narrativo dello spettacolo, lo specchio in questione mi fa pensare alla vertiginosa interpretazione che del personaggio di Don Giovanni (e del suo omologo Casanova) hanno dato alcuni studiosi.
Secondo loro, l’ossessionante ricerca di sempre nuove donne da possedere (ovvero il non riuscire ad essere pienamente soddisfatti dal rapporto sessuale) incarnerebbe una sostanziale impotenza di Don Giovanni e di Casanova, tale da configurare un’omosessualità di fondo riferibile a una solitudine ontologica. Don Giovanni e Casanova non possono accontentarsi di alcuna donna perché, in effetti, desiderano soltanto se stessi. E se, come accade nello spettacolo dell’Orchestra di Piazza Vittorio, Don Giovanni è una donna, il quadro che ho delineato ne risulta pienamente e intelligentemente confermato.
Del pari intelligenti, del resto, si rivelano le trovate stranianti che punteggiano la rappresentazione. Vedi, sempre per fare un esempio, il fatto che a darle il via è il batterista, il quale entra in scena fischiettando l’aria «Tutto, tutto, già si sa»: un’aria che, non a caso, ritorna alla fine del primo atto e nel bis. Mentre, a sostituire il concertato conclusivo (il sestetto «Questo è il fin di chi fa il mal», peraltro molto discusso e a volte non eseguito), arriva «I feel love» di Donna Summer.
Comunque, è ovvio, i brani celebri del «Don Giovanni» di Mozart ci sono tutti, dal «Notte e giorno faticar» iniziale a, per l’appunto, «Madamina il catalogo è questo» e «Là ci darem la mano». E a questo punto mi sembra davvero superfluo sottolineare la bravura degli interpreti (a quelli citati va aggiunta, nel ruolo di Donna Anna, Simona Boo, la vocalist dei 99 Posse) e dei musicisti che li accompagnano: gli stessi Piccioni e Pecorelli rispettivamente al pianoforte e al contrabbasso, Davide Savarese alla batteria, Emanuele Bultrini alle chitarre e Andrea Pesce alle tastiere.
Piuttosto, credo necessario aggiungere che l’esplosione di colori e d’ironia e di gusto in cui si traduce questo spettacolo finisce in un piccolo miracolo: da tanto sfolgorante superficie affiora persino, qua e là, il «surrealismo demoniaco» che nel melodramma individuò Giorgio Vigolo.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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