Nel nido del cuculo irrompe la cronaca

 

Gilberto Gliozzi, Elisabetta Valgoi e Daniele Russo in una scena di «Qualcuno volò sul nido del cuculo» (foto di Francesco Squeglia)

Gilberto Gliozzi, Elisabetta Valgoi e Daniele Russo in una scena di «Qualcuno volò sul nido del cuculo» (foto di Francesco Squeglia)

Giova ricapitolare il percorso che ha portato al «Qualcuno volò sul nido del cuculo» in scena al Bellini. In principio, nel 1962, fu l’omonimo («One flew over the cuckoo’s nest») romanzo di Ken Kesey. Poi, nel ’71, venne l’adattamento teatrale di quel romanzo ad opera di Dale Wasserman. Quindi arrivò, nel ’75, l’adattamento dell’adattamento di Wasserman in forma di sceneggiatura per il film di Milos Forman. Seguì, di recente, l’adattamento in italiano dell’adattamento di Wasserman firmato da Giovanni Lombardo Radice. E adesso siamo all’adattamento dell’adattamento di Lombardo Radice realizzato in chiave napoletana da Maurizio de Giovanni.
Infatti, Randle McMurphy – il delinquente che si finge pazzo per scampare alla galera ma, poi, incoraggia i ricoverati dello State Mental Hospital di Salem a ribellarsi contro le crudeltà e le regole liberticide incarnate dalla caporeparto Mildred Ratched – diventa qui un Dario Danise che nel 1982 si scontra con una Suor Lucia nell’ospedale psichiatrico di Aversa.
Di conseguenza, l’impianto antropologico e metaforico di Kesey – condensato in una filastrocca («Tre oche in uno stormo / una volò a Est / una volò a Ovest / una volò sul nido del cuculo») che rimanda insieme a uno dei nomi gergali, appunto «nido del cuculo», che ha il manicomio negli Usa e al porsi dello State Mental Hospital di Salem come paradigma del mondo – cede il passo a una dimensione più vicina alla cronaca. E la cronaca s’impone, peraltro, sulla traccia della chiusura nei giorni scorsi degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani e del fatto che lo spettacolo dato al Bellini prima di questo, «Orchidee», aveva come emblema Bobò, il microcefalo sordomuto che Pippo Delbono raccolse proprio nel manicomio di Aversa.
Sulla concretezza immediata punta, del resto, anche la regia di Alessandro Gassmann: si va dalla scritta a caratteri cubitali «Ospedale psichiatrico» che sotto il proscenio sovrasta una finestra con le sbarre e per giunta murata alle convulsioni indotte dall’elettroshock, passando per le proiezioni che visualizzano sul velatino che chiude il boccascena le ossessioni e i sogni dei pazienti. I quali ultimi, connotati dalla cifra del prevedibile bozzetto realistico, vengono resi dagl’interpreti – pur tra qualche ridondanza di troppo – con partecipazione adeguata.
Molto bravi Daniele Russo nel ruolo di Dario ed Elisabetta Valgoi in quello di Suor Lucia. E da citare, fra gli altri, almeno Mauro Marino (Muzio) e Gilberto Gliozzi (il gigante Ramon).

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 14 aprile 2015)

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2 risposte a Nel nido del cuculo irrompe la cronaca

  1. Fulvio Arrichiello scrive:

    Buonasera,
    ieri sera (14/04/2015) ho visto lo spettacolo suddetto.
    Ho trovato l’operazione di trasporre un’opera cinematografica in teatro (perchè di quello si tratta) inutile ed ai limiti della macchietta. Battute di facile presa (quando c’è presenza di organi genitali, poi, la riuscita è sicura) su di un pubblico mal abituato a digerire il teatro che ti “cambia”, attori fuori contesto e, ancora peggio, personaggi parodistici. Il teatro non merita di esser maltrattato. E’ luogo d’incontro di anime e non mercato volgare volto al consumo take-away.
    Fulvio Arrichiello

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Arrichiello,
    lei è padronissimo di non apprezzare lo spettacolo a cui si riferisce, ma non è affatto padrone di affermare circa il medesimo cose che non sono vere. In scena al Bellini non c’è la “trasposizione” del celebre film di Forman, bensì un vero e proprio copione teatrale che consiste nell’adattamento in chiave napoletana (l’azione è trasportata nel manicomio di Aversa) del dramma che Dale Wasserman trasse dal romanzo omonimo di Ken Kesey nel 1971, dunque quattro anni prima del film. E questo, nella mia recensione, è detto con la massima chiarezza. Perché non se l’è letta, prima di inviare commenti che servono soltanto a farLe fare brutta figura?
    Enrico Fiore

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