Se la solitudine del giocatore è una solitudine da fiction

Geremia Longobardo in un momento di «All-in - Il gioco può causare solitudine», dato all'«Efestoval» di Mimmo Borrelli

Geremia Longobardo in un momento di «All-in – Il gioco può causare solitudine», dato all’«Efestoval» di Borrelli

BAIA – Per una singolare coincidenza, ho visto «All-in – Il gioco può causare solitudine» – lo spettacolo presentato nel Cantiere Navale Postiglione di Baia da «Efestoval», la rassegna diretta da Mimmo Borrelli – pochi giorni dopo essere tornato dal Montenegro, dove da qualche anno trascorro le vacanze in un albergo che ospita un casinò frequentato da molti giocatori napoletani.
Col tempo ho finito per conoscere alcuni di loro, e il mondo che li circonda e li tiene prigionieri: i «porteurs», quelli che procacciano i clienti ai casinò in cambio di una provvigione sulle somme puntate, gli usurai della malavita, gli spacciatori di droghe più o meno pesanti, le prostitute che girano attente alle vincite intorno ai tavoli verdi e alle macchinette… Ma, soprattutto, ho capito qual è la loro mentalità, che cosa, di solito, pensa il giocatore d’azzardo tipico e inguaribile, di che specie sono le relazioni che stabilisce con gli altri giocatori e con il mondo esterno al casinò.

Mimmo Borrelli

Mimmo Borrelli

Ebbene, di tutto questo non ho ritrovato assolutamente nulla nello spettacolo dato a Baia. Alla logica e ai meccanismi del gioco in sé il testo di Roberto Nugnes – debole fino ai limiti dell’inconsistenza – si riferisce solo con l’«all-in» del titolo, che è la locuzione con cui nel gergo del poker si definisce l’azione di un giocatore che scommette tutte le chips che gli rimangono; e per quanto riguarda la solitudine del giocatore, qui s’accampa unicamente quella realistica e individuale prospettata dal plot. Laddove quella vera – quella simbolica, e starei per dire ontologica – s’inscrive in un’insuperabile tautologia: il giocatore, che parla sempre e soltanto con gli altri giocatori, parla sempre e soltanto del gioco, delle perdite e delle vincite sue e degli altri giocatori.
Nugnes mette in campo due personaggi, Ruggero ed Ernesto. Sono amici, ma più esattamente si direbbe che sarebbero amici: perché, a minare le basi della loro amicizia, sta il fatto che Ernesto, giocatore incallito e incauto, ha un debito di centocinquantamila euro con il «cravattaro» Minieri, tra le cui grinfie l’ha spinto proprio Ruggero, che di Minieri è il ragioniere e che adesso, per impedire che lo raggiungano i sicari del boss, tiene nascosto Ernesto in un suo garage-bunker.
Una soluzione ci sarebbe, secondo Ruggero. Ernesto dovrebbe partecipare alle roulette russe che organizza Minieri: «Le organizza» – spiega Ruggero – «come se fosse uno spettacolo teatrale. Invita un gruppo di ricchi arabi, cinesi e russi che pagano un sacco di soldi per assistere ad una roulette e scommettono un sacco di soldi. ‘E guagliune ‘e Minieri vanno a prendere i tossici a Piazza Garibaldi, gli mettono una pistola in mano e inizia il gioco».

Gennaro Di Colandrea in un altro momento di «All-in - Il gioco può causare solitudine»

Gennaro Di Colandrea in un altro momento di «All-in – Il gioco può causare solitudine»

Ecco, Nugnes avrebbe potuto, come suggerisce questo passo, imboccare la strada dell’iperbole surreale. E invece s’attesta sul versante di un innocuo e improbabile raccontino da fiction. Con un finale che gronda di un buonismo tanto plateale quanto incongruo: Ernesto accetta di partecipare alla roulette russa e incarica Ruggero di puntare sulla sua morte la grossa somma che (figuriamoci, proprio un giocatore irrecuperabile come lui) ha accumulato pensando all’avvenire della figlia Danielina.
Il tutto condito da battute degne di «Made in Sud» (vedi il Ruggero che replica: «Eh, m’ha pigliato pe’ Galileo» a Ernesto che gli ha detto: «Ruggero, ti devi inventare qualcosa») e da termini (oddio, ci dovrebbero impressionare?) come gli abusatissimi «pucchiacca» (con le varianti «brioscia» e «braciulona») e «bucchino». Mentre, incongruità nell’incongruità, il Nugnes arriva a inventarsi che i due scalcagnati personaggi in questione si danno, nel bel mezzo del loro pasticcio, alla lettura della Bibbia, con tanto di citazione finale dall’Ecclesiaste.
Per la verità, la citazione dall’Ecclesiaste rappresenta solo uno dei tanti sottofinali pleonastici e tendenziosi che ci piovono addosso. L’impianto scenografico di Luigi Ferrigno (un contenitore stretto e lungo intorno al quale gli spettatori siedono a spiare l’azione che vi si svolge attraverso finestre di tanto in tanto chiuse da un velatino) serve unicamente a tradurre la pretesa di trasformare il pubblico in un’assemblea, anticipando il fatto che, nel momento in cui Ernesto si accinge a dare inizio alla sua roulette russa, Ruggero si rivolge direttamente a quel pubblico con stentorei «E voi fate la vostra scommessa!» e «Puntate!». Salvo l’ennesimo sottofinale che vede lo stesso Ruggero rievocare la vicenda di Ernesto con battute patetiche tipo «Danielina era veramente la cosa più importante della sua vita. E io non mi do pace. ‘Sta cosa me la porto sulla coscienza per tutta la vita».

Leo de Berardinis  (foto di Tommaso Le Pera)

Leo de Berardinis
(foto di Tommaso Le Pera)

Dal canto suo, il regista Giuseppe Miale di Mauro sembrerebbe voler inquadrare il plot nella dimensione della nevrosi. Ma dico sembrerebbe perché, poi, gl’interpreti – i pur impegnati e tecnicamente corretti Gennaro Di Colandrea (Ruggero) e Geremia Longobardo (Ernesto) – sostituiscono alla nevrosi una frenesia spesso scomposta e, comunque, inscritta nel puro naturalismo, stanti, fra l’altro, le inconfondibili cadenze bacolesi che adottano.
Non a caso, infatti, la stesura del testo s’è avvalsa della consulenza drammaturgica di Mimmo Borrelli, della cui «squadra» ancora non a caso (erano, per intenderci, fra gl’interpreti de «La cupa») Di Colandrea e Longobardo fanno parte. E proprio la partecipazione allo spettacolo di Borrelli e la logica del «clan» che allo stesso pare presiedere giustificano la lunghezza di questa recensione.
Borrelli ha adottato come logo di questa quarta edizione di «Efestoval» il concetto di «re-esistenza». Ma non credo che «All-in – Il gioco può causare solitudine» possa in un qualsiasi modo accordarsi con quel concetto. Lo spettacolo di cui parliamo rientra irrimediabilmente nel teatro di rappresentazione, che semmai c’entra con l’esistenza (nel senso del semplice e inutile esserci) ma non c’entra assolutamente nulla con la resistenza (nel senso del complesso e produttivo opporsi). Forse sarebbe bene ricordarsi che in questo mese si compiono i dieci anni dalla morte di un signore che si chiamava Leo de Berardinis, uno che la resistenza, e in tutti i modi, la fece davvero, pagando persino il prezzo di una dura emarginazione e lasciandoci l’incomparabile lezione di un teatro che irrinunciabilmente si confondeva (o, meglio, si sporcava) con la vita.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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