Quei «Tatuaggi» sul corpo di Antonio Pennarella

Antonio Pennarella in un momento di «Tatuaggi», tratto da «Haute surveillance» di Genet (le due foto che illustrano l'articolo sono di Cesare Accetta)

Antonio Pennarella in un momento di «Tatuaggi», tratto da «Haute surveillance» di Genet
(le due foto che illustrano l’articolo sono di Cesare Accetta)

Riporto il ricordo di Antonio Pennarella pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Mi ha raggiunto in Montenegro, dove stavo trascorrendo qualche giorno di riposo, la notizia tristissima della morte prematura di Antonio Pennarella. E se altri hanno ricordato la sua partecipazione a film come «Il sogno della farfalla» di Marco Bellocchio, «Il verificatore» di Stefano Incerti e «Noi credevamo» di Mario Martone o a fiction come «Un posto al sole», «Il maresciallo Rocca» e «La squadra», io voglio sottolineare, per quanto riguarda il teatro, che Antonio era di quegli attori appartati che il teatro vero (o, almeno, ciò che ne rimane) alimentano con una passione e una dedizione – preziose proprio perché silenziose – ormai sconosciute a molti dei loro colleghi di gran nome. E in più mi era caro, giacché fu partecipe di una delle più significative esperienze della mia vita.
Parlo dello spettacolo «Tatuaggi». Sabato scorso, nelle pagine locali de «la Repubblica», Giulio Baffi lo ha definito (bontà sua) «bellissimo», ma ha omesso di specificare che io ne scrissi il testo e Laura Angiulli ne firmò la regia. Ora, non è che smaniassi dalla voglia di essere citato da Baffi, è solo che si trattava, credo, di dover fornire qualche informazione in più circa un evento singolare e di qualche rilievo. E così, adesso, a dare quelle informazioni provvedo io.
Nel 1994 Laura Angiulli mi propose di tradurre in dialetto napoletano «Haute surveillance (Sorveglianza stretta)» di Genet. Ed io risposi subito che una pura e semplice traduzione non avrebbe avuto molto senso, ci si sarebbe ridotti a una trovata di stampo folcloristico. Assai più significativa, invece, sarebbe stata una vera e propria riscrittura del testo genettiano. Ed è quello che feci: innanzitutto sostituendo il personaggio protagonista originale, Yeux-Verts , con una mia creatura, che chiamai «il Marinaio» perché costituiva una dichiarata proiezione del me stesso che aveva percorso gli oceani come commissario di bordo dell’«Achille Lauro». Mentre al posto di Lefranc e Maurice, gli altri due personaggi di Genet, misi rispettivamente un Peppe e un Alfredo, quest’ultimo il personaggio che interpretò Antonio Pennarella.
Per quanto, poi, atteneva alla scrittura, lavorai direttamente sul testo originale francese pubblicato da Gallimard e, ad accentuare l’aspetto «sacrale» e «rituale» dell’azione, affidai ai tre attori in campo (gli altri due erano Lello Serao, «il Marinaio», e Marcello Colasurdo, Peppe) una lingua inventata, che innestava su un dialetto napoletano molto formale (e, in qualche caso, addirittura arcaico) termini desunti dalla «parlesia», il gergo di origine zingaresca in uso un tempo fra i musicisti partenopei, e dal linguaggio della malavita. Ed è superfluo rimarcare, infine, che i «tatuaggi» del titolo erano quelli, reali, che comparivano sui corpi del Marinaio e di Peppe, ma anche, e soprattutto, i «segni» lasciati nell’anima dalla vita.

Da sinistra, Antonio Pennarella e Marcello Colasurdo in un altro momento di «Tatuaggi»

Da sinistra, Antonio Pennarella e Marcello Colasurdo in un altro momento di «Tatuaggi»

Lo spettacolo, dal quale la stessa Laura Angiulli ricavò anche un film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione «Officina», fu accolto con grande favore. Franco Quadri scrisse su «la Repubblica» che nei suoi cinque anni di repliche era «divenuto uno spettacolo di culto e la bandiera del Teatro Galleria Toledo di Napoli». Aggeo Savioli, in occasione del suo debutto, avvenuto il 4 settembre del ’95 a Casertavecchia, nell’ambito della XXV edizione di «Settembre al Borgo», gli dedicò l’editoriale della pagina nazionale degli spettacoli de «l’Unità», definendolo «un notevole pezzo di teatro» e aggiungendo che incarnava un’«impresa non facile, ma riuscita: giacché quanto di “letterario” (e, a momenti, di sofisticato) essa implica non frena l’articolarsi, alla ribalta, di un discorso limpidamente teatrale, indenne dalla pura mimesi naturalistica, ma ancorato alla realtà». E Nicola Viesti, proprio sul «Corriere del Mezzogiorno», osservò addirittura che il mio adattamento si poneva al pari del testo originario e a volte quasi sembrava superarlo.
Non potevano sapere, i recensori, che cosa si nascondeva dietro quell’adattamento. Lo smarrimento di Yeux-Verts – «[…] je suis bouclé en face de mon regret» – diventava, in bocca al Marinaio, «Stateme a senti’, i’ ve dico ‘na cosa sola: sparpeteia pe’ ll’aria ‘na malincunia accussì pugnente ca i’ overo vulesse ca fosse già notte, pe’ m’abbraccia’… ‘o core, ca tengo sulo a isso. Vulesse, nun me ne metto scuorno, vulesse, vulesse, vulesse… astregnerme dint’ ‘e stesse braccia meje, fa’ ll’ammore cu ‘a stessa carna meia…»; e rimandava allo smarrimento di Antonio, che sull’«Achille Lauro» faceva il cameriere.
Era bellissimo, Antonio. E le milionarie in crociera nel Pacifico trovavano strano che non rispondesse alle loro attenzioni. Ma ogni notte lui girava per i corridoi e le scalette della nave a fermare i marinai, anche quelli che salivano dalla sala macchine unti d’olio e di sudore e di fatica. E capitava che qualche volta qualcuno dei marinai si fermasse, anche qualcuno di quelli che salivano dalla sala macchine unti d’olio e di sudore e di fatica. Addirittura, una notte, Antonio riuscì a portarsi nella sua cabina una decina fra assistenti d’ufficio, commissari di bordo e «piccoli di camera». Navigavamo nella Grande Baia Australiana verso Capo Otway. E addormentate le onde gigantesche capaci di sommergere completamente la prora dell’«Achille», ci cullava un «mare lungo» ch’era come un’estenuante carezza. Ma ecco che, arrivato in quella cabina, Antonio si mise improvvisamente a ballare da solo, e in breve, baiadera feroce e superba, se ne andò in una sua lontananza intoccabile e finalmente felice.
Già, riandai, nello scrivere il personaggio di Alfredo, esattamente a quell’Antonio. E Antonio Pennarella – mai fu più giustificato il detto che portiamo il nostro destino nel nome – inverò, nell’aderire perfettamente a un simile personaggio, quanto ripeteva spesso il mio professore d’italiano al liceo: quando un uomo pensa qualcosa di bello, quel pensiero non si perde, resta nell’aria; e prima o poi ci sarà un altro uomo che lo raccoglierà.
Antonio Pennarella, senza rendersene conto, pensò lo stesso pensiero straziato e pure indomito del cameriere Antonio che di notte fermava i marinai sull’«Achille Lauro». E, per questo, letteralmente incarnò il canto del fisarmonicista di strada Gaetano Piazzolla che Laura Angiulli piazzava fuori dello spazio della finzione, sotto l’esile luce di una lampadina appesa a un filo: «Tu nun me dice maje, / maje ‘na parola. / Dimme ‘na vota sola: / “Te voglio bbene” / e po’ famme murì!». Ciao, Antonio. Dovunque tu sia, ti culli, e non smetta mai, il «mare lungo» dei sogni che si tramutano in segni.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 28/8/2018)

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