Addio a Salvatore Cantalupo

Salvatore Cantalupo nella foto scelta per il logo di un suo laboratorio

Salvatore Cantalupo nella foto scelta per il logo di un suo laboratorio

NAPOLI – Una notizia triste è venuta a rendere ancora più grigio questo Ferragosto già immalinconito dalla pioggia: la morte prematura, a soli cinquantanove anni, di Salvatore Cantalupo. Era un attore tanto bravo quanto modesto e schivo, un’autentica perla rara nella pletora dei suoi colleghi presuntuosi ed esibizionisti.
Lavorò, non a caso, con i maggiori talenti espressi dalla scena napoletana. E certo, possiamo qui citare i più significativi degli spettacoli di cui fu interprete: «La natura non indifferente» e «Titanic the end» del suo maestro Antonio Neiwiller, «Sette contro Tebe», «Edipo re» e «I dieci Comandamenti» di Mario Martone, «Sabato, domenica e lunedì», «Il lavoro rende liberi», «Le false confidenze» e «La trilogia della villeggiatura» di Toni Servillo, «Napoli ’43» e «Istruzioni per minuta servitù» di Enzo Moscato. Mentre, per ciò che attiene al cinema, è sufficiente menzionare il personaggio del sarto di «Gomorra», che diede a Cantalupo la notorietà presso il grande pubblico.
Ma io voglio salutare Salvatore ricordando, in particolare, il riallestimento di «Titanic the end» che presentò nella Sala Assoli nel novembre del 2013, a vent’anni dalla scomparsa non meno prematura di Neiwiller.
Trasparivano da quello spettacolo, che non esitai a considerare il più bello della stagione, non solo l’affetto e la riconoscenza verso colui che gli aveva insegnato le leggi non scritte di un teatro diverso, ma anche e soprattutto l’intelligenza e la precisione con cui veniva inverata e messa a frutto quella lezione: che, come sappiamo, per quanto riguarda «Titanic the end» risultava fondata da un lato, ovviamente, su «La fine del Titanic» di Enzensberger e dall’altro su «La classe morta» di Kantor.
Basterebbe, in proposito, riandare col pensiero all’attacco dell’allestimento, con lo stesso Cantalupo nel ruolo di regista in scena che fu del maestro polacco e gl’interpreti immobili sotto una specie di lenzuolo funebre, in uno spazio invaso dalla nebbia e dalla musica iterativa di Philip Glass. Forse che non si trattava di un richiamo alle constatazioni decisive di Enzensberger: «Il tempo degli esperimenti è finito» e «Qualsiasi avanguardia d’oggi è necessariamente ripetizione, inganno, illusione»?; e la sirena che di tanto in tanto spingeva gl’interpreti al parossismo non era, insieme, quella d’allarme del Titanic che affonda e l’equivalente del valzer che spinge i vecchi decrepiti de «La classe morta» a levarsi in piedi nei banchi, nel tentativo disperato di mutare quel valzer in una «forma» che li salvi dal nulla?
Così, riprendendo con amore ed esemplare fedeltà quello che fu, probabilmente, il capolavoro di Neiwiller, Salvatore Cantalupo batteva in breccia la parola come puro parlare, con i fogli scritti (la tirannia del testo!) che si riducevano a fazzoletti utilizzati per detergere il sudore o per salutare partenti diretti chissà dove. Era, insomma, la vita che si prendeva la rivincita sul teatro della rappresentazione. E sia questo ricordo il miglior viatico, ora che anche Salvatore è partito.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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