Il volo libero da Bird a Totò

Leo de Berardinis in un momento di  «Come una rivista» (foto di Tommaso Le Pera)

Leo de Berardinis in un momento di «Come una rivista» (foto di Tommaso Le Pera)

NAPOLI – Riporto la quinta e ultima puntata, pubblicata oggi dal «Corriere del Mezzogiorno», di una riflessione su Leo de Berardinis a dieci anni dalla morte.

Si concludeva, «Ha da passa’ ‘a nuttata», con una sequenza che non è stato mai possibile scacciare dalla mente: con il grandissimo ed eroico Leo che, seduto dietro un tavolo e rivolgendosi direttamente agli spettatori, fondeva in rapida successione l’avvilita requisitoria di Alberto Saporito contro la famiglia Cimmaruta e il sereno, seppur doloroso, congedo di Prospero. Già: «un assassinio lo avete messo nelle cose di tutti i giorni» e «simmo fatte cu ‘a stoffa d’ ‘e suonne», la miseria dell’anima e la necessità di prenderne coscienza per superarla.
Del resto, c’è da aggiungere che Leo – il quale, dopo aver vinto con «Ha da passa’ ‘a nuttata» il Premio Ubu per il migliore spettacolo dell’anno, non a caso si aggiudicò nel ’91 il Premio Eduardo di Taormina Arte, con una motivazione che, mentre gli riconosceva «il crescente impegno artistico verso la ricerca di nuove impostazioni espressive», sottolineava, giusto, la sua dedizione agli «ideali e valori umani dell’opera eduardiana» – Leo, dicevo, realizzò un teatro che, sempre, ebbe con la più genuina tradizione culturale napoletana un legame stretto e addirittura inscindibile.
Basta pensare, in proposito, a «Totò principe di Danimarca» e, soprattutto, a «Come una rivista». Infatti, quest’ultimo spettacolo, a chiudere un cerchio ideale, rimandava dichiaratamente a «Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto». Solo che stavolta eravamo in quel di Brooklyn e c’imbattevamo in Mr. Jason, un personaggio – a metà fra un mafioso italo-americano, un capocomico d’avanspettacolo e un classico entertainer televisivo – che indossava, sì, una giacca di lamé assai simile a quella che indossava l’alieno di «Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto», ma evocava «mostri» che non erano più i proverbiali archetipi della sceneggiata (poniamo, l’Avvocato, la Fanciulla Sedotta e Abbandonata o la Creatura Figlia del Peccato), bensì gente come Mercuzio, Antigone, Ifigenia, Medea, Cassandra, Giulietta, Romeo, Creonte, Elettra, Oreste, Clitemnestra e, ci mancherebbe, Edipo. E si materializzavano, questi ectoplasmi teatrali illustri, unicamente sotto specie di brevi «play» di un nastro magnetico, subito dopo risucchiati nel nulla dall’effetto «rewind» dell’ipotetico registratore messo in funzione nella circostanza.

Leo de Berardinis in un momento di «Totò principe di Danimarca» (foto di Tommaso Le Pera)

Leo de Berardinis in un momento di «Totò principe di Danimarca» (foto di Tommaso Le Pera)

Si capisce, dunque, che la rivista di cui nel titolo veniva riprodotta solo in quanto forma, per l’appunto attraverso il succedersi dei «numeri», staccati fra loro, eseguiti dai personaggi illustri citati. Infatti, i suoi caratteri salienti, pur continuamente richiamati, apparivano nello stesso tempo negati e volti in burla: vedi, per esempio, le scalcagnate ballerinette di fila che ad intervalli più o meno regolari s’alzavano dalle loro sedie e accennavano, come al rallentatore, scolastici passi di danza; e vedi, appunto, le escursioni nei territori del più puro varietà di matrice napoletana, a partire dall’incontro fra Giulietta e il Totò di «E levate ‘a cammesella».
Ancora una volta, insomma, non eravamo di fronte a uno spettacolo qualsiasi, ma a un vero e proprio evento: che si poneva, insieme, come un atto d’amore nei confronti del teatro d’arte (per l’esattezza del teatro che si fa poesia) e come un feroce e lucidissimo atto d’accusa nei confronti del teatro d’evasione (per l’esattezza del teatro che diventa commercio). Un evento che, in breve, inverava quanto Leo volle affermare, perentorio, a titolo di esaustiva e definitiva dichiarazione di poetica: «Fare teatro è eversione. Io nego il teatro come rappresentazione perché è borghese, hegeliano, espressione di un potere. Il teatro è “essere”, non in senso romantico, ma politico. In questo modo diventa una forza rivoluzionaria, perché si sgancia dalla cultura di potere».
Il tutto, infine, si coagulava (o si spegneva, fate voi) in un tango ballato da zombi, una sorta di risata sghemba sulle tante certezze andate al macero e, ad un tempo, il respiro della vita che non voleva arrendersi alla morte.
Chiudo. L’«assenza» di Leo mi sembra assolutamente simbolica, rispetto a questo nostro tempo in cui tutto grida tranne la ragione. Penso a quanto Leo scrisse, in una dedica, per la «Quadrilogia di Santarcangelo» di Enzo Moscato pubblicata dalla Ubulibri con la mia introduzione: «Il desiderio del tuo fragile corpo d’attore è il desiderio di una canzone nuova, di un canto nuovo, spremuto dalle macerie, dal dolore e dal sorriso; un desiderio che è oltre ciò che avviene sulla scena, è intorno al tuo corpo, è in quei momenti in cui fai in modo che anche gli altri, gli spettatori, si pongano in ascolto in prossimità del silenzio». E certo, stare in ascolto sul ciglio del silenzio è una grazia, ma precipitarvi, nel silenzio, è smarrimento e pena.
Tuttavia, il ricordo di Leo mi richiama alla mente il giorno di fine luglio del ’46 in cui, negli studi della Dial, a Los Angeles, Bird (sì, proprio quel Charlie Parker al quale Leo dedicò un film) incise «Lover man». Viene considerata la più drammatica seduta d’incisione della storia del jazz, tanto ch’è stata più volte raccontata e, in particolare, fu l’oggetto della novella «Sparrow’s last jump», scritta dal giornalista del «Billboard», Elliott Grennard, che a quella registrazione era presente. Già, «l’ultimo salto del passero». E il «passero», s’intende, era lui, Charlie Parker detto Bird.
Parker era arrivato a quella seduta d’incisione in condizioni disperate: privato dell’eroina dopo l’arresto del suo fornitore «Moose the Mooche» e distrutto dall’alcool con cui aveva cercato di sostituirla, Bird stava talmente male – tutto un bagno di sudore e un tremito continuo – che Ross Russell, il titolare della Dial, volle che nella cabina di controllo dello studio ci fossero uno psichiatra e un medico. Ma inutilmente, prima che si desse inizio, su richiesta dello stesso Parker, all’incisione di «Lover man», vennero date a Bird delle pastiglie. Lui barcollava, sicché il suo leggendario sassofono s’accostava e s’allontanava dal microfono; e mancò l’entrata, riuscendo solo dopo qualche battuta a sintonizzarsi con l’introduzione del pianista Jimmy Bunn.
Però, mai più un jazzista – nemmeno Bird – suonò quel brano con la stessa intensità straziata e, pure, solenne. Finiva con un ultimo fraseggio che non finiva, arrestandosi, misterioso, per l’appunto «in prossimità del silenzio». E allora eccolo, il mio ricordo di Leo. È proprio come quell’ultimo volo di Bird: viene e va, spesso sommerso dalle grida malate dell’oggi, proprio come quel sassofono leggendario s’accostava e s’allontanava dal microfono; ma, proprio come il suono di quel sassofono, sempre torna, e sempre indomito. E non si smarrisce, perché a non smarrirsi deve aiutare.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

                                                                                                                                             ( 5 – fine )

(«Corriere del Mezzogiorno», 19/8/2018)

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4 risposte a Il volo libero da Bird a Totò

  1. Carmine Borrino scrive:

    Gentile Enrico,
    leggo sempre con grande interesse il suo blog.
    Questo racconto di Leo de Berardinis è stato veramente entusiasmante. Faccio parte di una generazione che purtroppo ha perso la bussola, diciamo così. E devo dire che leggerla mi aiuta molto a ritrovare la strada, ma ancora di più a conoscerne di nuove. Sono inquieto per natura e quindi sto tranquillo!
    Buone vacanze anche a lei.
    Carmine Borrino.

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Carmine,
    mi fa piacere che abbia apprezzato il racconto della straordinaria vicenda di Leo de Berardinis. Che tale apprezzamento venga da un giovane è cosa importante, perché lascia aperto uno spiraglio sulla possibilità di un futuro migliore del nostro disastrato presente. E la ringrazio, naturalmente, per la fiducia che ripone in me, anche se, così, mi carica di responsabilità. Cercherò sempre di non deluderla, e intanto, in merito alla faccenda dell’inquietudine, la lascio con una piccola considerazione: non importa tanto trovare la strada, importa soprattutto cercarla. Se lei, come dice, continua a cercarla, l’ha già trovata.
    Enrico Fiore

  3. Valentina Capone scrive:

    Grazie, Enrico.
    Valentina Capone

  4. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te, cara Valentina, per l’attenzione che hai dedicato alle mie parole.
    Enrico Fiore

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