Quel colpo di pistola sparato in piazza dalla furia della vita

Leo de Berardinis in un momento di «Avit’ ‘a murì», presentato nel 1978 a Somma Vesuviana (le foto dello spettacolo sono tratte da «La bellezza amara. Il teatro di Leo de Berardinis» di Gianni Manzella, pubblicato nel '93 da Pratiche Editrice)

Leo de Berardinis in un momento di «Avit’ ‘a murì», presentato nel 1978 a Somma Vesuviana
(le foto dello spettacolo sono tratte da «La bellezza amara. Il teatro di Leo de Berardinis» di Gianni Manzella)

NAPOLI – Riporto la terza puntata, pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno»,  di una riflessione su Leo de Berardinis a dieci anni dalla morte.

Forse, adesso, è chiaro perché di Leo de Berardinis non si può parlare semplicemente come di uno dei maggiori rappresentanti dell’avanguardia teatrale italiana. Bisogna aggiungere che è stato il suo rappresentante più puro ed eroico, giacché di quell’avanguardia ha avuto il coraggio di assumere su di sé, con dolore (e pagando persino il prezzo di una dura emarginazione), anche la degradazione e la morte. Ne avemmo la prova definitiva e lancinante la sera del 1° luglio del ’78, in piazza Trivio a Somma Vesuviana.
Leo presentava con Perla (e fu l’ultima volta che da queste parti li rivedemmo insieme) lo spettacolo «Avit’ ‘a murì». Lo presentava nell’ambito della quinta edizione del Giugno Popolare Vesuviano, una rassegna organizzata dall’Arci-Uisp Villaggio Vesuvio di San Giuseppe Vesuviano: e inutilmente, con una lettera, Leo aveva chiesto al presidente del Villaggio, Renato Andreozzi, di farlo al chiuso, data la sua particolarissima natura. La conseguenza fu una serata balorda, con il juke-box di un bar ad altissimo volume e i ragazzini in motoretta che sfrecciavano sotto il palco. E quando Leo, mentre Perla correva in tondo come una belva in gabbia, si piegò in due, nella destra un improbabile violino, e cominciò a vomitare nel microfono quel sempre più rabbioso «Avit’ ‘a murì», davvero si scatenò la tregenda.
Uno dei ragazzini si arrampicò sul palco e sputò in faccia a Perla, Leo lo aggredì brandendo il fiasco di vino che s’era scolato un po’ alla volta… e improvvisamente, nella calca, qualcuno – non si vide chi – addirittura sparò un colpo di pistola, fortunatamente andato a vuoto. Lo spettacolo, naturalmente, venne sospeso. Ma ciò che eravamo riusciti a sentire fino al momento dell’interruzione forzata bastò da solo a trasformare quella serata balorda in un evento assolutamente indimenticabile.
Uno spettacolo, «Avit’ ‘a murì», che diventava nient’altro che un rumore fra i tanti della strada e della vita. Era la riduzione al grado zero della drammaturgia, una sorta di tremendo Beckett trapiantato nella dimenticata provincia meridionale, la centrifugazione del linguaggio: come provenienti, giusto, da lontananze astrali, le parole – del tutto destituite di senso – affogavano impotenti nella palude vischiosa dell’esistenza.

Gennaro Pinto

Gennaro Pinto

Come al solito, ero l’unico giornalista presente. E come al solito ero venuto da Castellammare, dove abitavo, con un treno della Circumvesuviana, e in compagnia di quel Matteo Palumbo, uno dei maggiori filologi in circolazione, che aveva la cattedra di Letteratura Italiana all’Università «Federico II» e per tutta la vita è stato il mio acuto e paziente interlocutore, leggendo o ascoltando in anteprima moltissimi dei miei scritti. Ma insieme con noi, sotto il palco c’era Gennaro Pinto, dirigente del Pci e amministratore della redazione napoletana di «Paese Sera»: uno quadrato e tosto, che aveva fatto il partigiano in Albania e aveva sposato una principessa albanese, ma senza poter diventare comproprietario dei suoi beni, confiscati da Tito, e senza poter neppure protestare, perché, appunto, di conclamata fede comunista. E sotto il palco, quella sera, Gennaro Pinto si trovava in veste ufficiale, giacché la quinta edizione del Giugno Popolare Vesuviano era sponsorizzata proprio da «Paese Sera».
Ebbene, accadde che, sedata la tregenda, Leo ritornò sul palco e, munito di un nuovo fiasco di vino, si lanciò in un’interminabile e violentissima filippica che, partendo dalle responsabilità di Andreozzi, s’allargò al Pci e, allargandosi allargandosi, arrivò fino a Berlinguer. Gennaro Pinto cominciò a diventare di tutti i colori, prima bianco, poi rosso, poi paonazzo. E infine, diventato verde, mi si rivolse con un sibilo minaccioso:
– «Tu mò a chistu fetente l’hê ‘a fa’ ‘na chiaveca!».
– Genna’, chisto nun è ‘nu fetente, è ‘nu grande artista…
– «Vabbuo’, però ha parlato male d’ ‘o Partito».
– E ccà ha sbagliato, simmo d’accordo. Ma tu te l’hê ‘a piglia’ cu Andreozzi, ca l’ha fatto asci’ pazzo.
– «Pazzo o no, comunque s’ammereta ‘na lezione!».
– Stamme a senti’, Genna’. I’ a de Berardinis nun ‘o pozzo attacca’, primmo pecché è de Berardinis e sicondo pecché ave ragione. I’ ‘o mmassimo ‘o mmassimo te pozzo fa’ ‘o piacere ‘e nun ce scrivere niente, ‘ncopp’a ‘sta serata…
Gennaro Pinto, sia pure a malincuore, accettò il compromesso. Ma la faccenda ebbe un seguito, stavolta fra il surreale e il comico. La sera successiva mi trovavo in un’altra piazza, stavolta a Ottaviano, per seguire – sempre nell’ambito del Giugno Popolare Vesuviano – il concerto del gruppo contadino della Zabatta. Ed ecco che, tra la folla, mi si avvicina uno sconosciuto. «Voi siete Enrico Fiore?». E alla mia risposta affermativa, dice: «Leo de Berardinis vi vuole parlare. Sta a Marigliano, a casa della sorella Giacinta. Venite, ho la macchina a due passi». Abbandono il concerto e mi allontano con lo sconosciuto, mentre Gennaro Pinto e gli altri dell’organizzazione mi osservano incuriositi da lontano.

Leo de Berardinis, nei panni di Colombina, in un altro momento di «Avit’ ‘a murì»

Leo de Berardinis, nei panni di Colombina, in un altro momento di «Avit’ ‘a murì»

A Marigliano, a casa della sorella, Leo mi accoglie trincerato dietro un muro di cinque o sei bottiglie di birra vuote. Mi siedo dall’altra parte del tavolo e attacco anch’io con la birra, seguita ben presto dal vino. E tra un bicchiere di birra e uno di vino, e tra cento sigarette, parliamo e le ore passano, c’è nell’aria un abbandono fraterno. Poi, ad un tratto, Leo mi guarda fisso e sbotta: «Devi farmi un’intervista, ma lunga, molto lunga: perché io ieri sera ho detto soltanto alcune delle cose che avevo da dire, adesso voglio dire il resto». E io: «Guarda, Leo, che ho già dovuto sudare, e non poco, per ammansire Gennaro Pinto. Forse l’hai dimenticato che io scrivo su “Paese Sera”, che è “Paese Sera” che quest’anno finanzia il Giugno Popolare Vesuviano e che “Paese Sera” è un giornale di proprietà del Pci? Segui il mio consiglio: l’intervista fattela fare da Cordelli e fagliela pubblicare nelle pagine dell’edizione romana, quelle che a Napoli non arrivano. Così tu potrai dire tutto quello che vuoi, Gennaro Pinto non lo verrà mai a sapere e vivremo tutti felici e contenti».
In effetti, fu quello che poi avvenne. Ma intanto io non tornai a casa, e da Marigliano mi feci accompagnare direttamente a Napoli: dove alle undici di mattina, come ogni giorno, mi presentai (non dico fresco come una rosa, perché sarebbe un eufemismo) nella stanza della redazione di «Paese Sera» in cui avevo la mia scrivania. Piazzata, guarda caso, proprio di fronte a quella di Gennaro Pinto. E lui, appena comparvi nel vano della porta, mi guardò come se avesse visto un inquilino del camposanto in libera uscita. «Ma sei proprio tu? E stai qua? E stai bene?». E di fronte al mio stupore un po’ seccato, spiegò: «Capirai: ti abbiamo visto sparire in compagnia di uno sconosciuto, non ci hai detto niente, non sei più tornato… e dopo quello ch’era successo la sera prima, ci siamo preoccupati. Mannaggia ‘a capa toia, avimmo passato tutta ‘a nuttata a te i’ cercanno, cu ‘e mmachine, pe’ tutte ‘e paise attuorno ‘o Vesuvio!».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

                                                                                                                                        ( 3 – continua )

(«Corriere del Mezzogiorno», 17/8/2018)

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2 risposte a Quel colpo di pistola sparato in piazza dalla furia della vita

  1. Gianni Pinto scrive:

    Grazie, Enrico, per aver ricordato mio padre.
    Altri tempi, altri uomini, altre storie! Quando eravamo giovani e i Partiti, con tutte le loro storture, erano un momento essenziale
    ed importante della vita del Paese. Invece oggi…
    Ricordo qui che Leo fu ospite dell’Estate a Napoli 1981 al Parco Virgiliano, nella rassegna Nuove Spettacolarità in cui erano presenti anche i giovanissimi Mario Martone con Falso Movimento e Toni Servillo
    con il Teatro Studio di Caserta: la cultura e lo spettacolo al tempo di Valenzi.
    Complimenti per il tuo ricordo di Leo a dieci anni dalla scomparsa e ad Enzo d’Errico per aver “aperto” in piena estate il “Corriere del Mezzogiorno” a un’importante iniziativa per ricordare uno dei principali protagonisti dell’avanguardia teatrale italiana.
    Grazie, un caro saluto.
    Gianni Pinto

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Gianni,
    non mi devi ringraziare, perché ritengo di aver fatto solo il mio dovere: è decisivo che non si perda del tutto, nell’incalzare dell’incultura e del qualunquismo di oggi, la memoria degli uomini e delle storie a cui accenni. Piuttosto, sono d’accordo, va ringraziato, e molto, Enzo d’Errico, che a cavallo del Ferragosto, e dunque di un momento proverbialmente votato al disimpegno, ha avuto il coraggio di ospitare il lungo racconto di un’esperienza rivoluzionaria come quella di Leo.
    Ti abbraccio.
    Enrico Fiore

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