L’epopea di Marigliano, fra risate e «chianto»

Leo de Berardinis e Perla Peragallo in un momento di «'O zappatore» (foto di Agnese De Donato)

Leo de Berardinis e Perla Peragallo in un momento di «’O zappatore» (foto di Agnese De Donato)

NAPOLI – Riporto la prima puntata, pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», di una riflessione su Leo de Berardinis a dieci anni dalla morte.

Ascea, sede del festival VeliaTeatro, dista appena 25 chilometri da Gioi Cilento, dove nacque Leo de Berardinis. Naturale, quindi, che fosse proprio Ascea a celebrare per prima il decimo anniversario della morte di Leo, avvenuta il 18 settembre del 2008, dedicandogli la ventunesima edizione del suo festival. Ed è toccato a me, nell’Auditorium della Fondazione Alario, ricordare Leo, alla presenza della figlia Carola. Adesso tenterò, con cinque articoli, di riassumere – evocando vicende molto o molto meno note – quella che fu un’esperienza unica e straordinaria perché mai, neppure per un momento, smise di mischiare (o, meglio, di sporcare) il teatro con la vita.
Leo, avendo al fianco Perla Peragallo, s’era affermato – correva il ’67 – nel fervido (e sfrenato) clima delle «cantine» romane; e aveva cominciato, dunque, allo stesso modo di Carmelo Bene, insieme con il quale, del resto, orchestrò l’anno successivo nientemeno che un «Don Chisciotte» inizialmente destinato a diventare un film con Eduardo e Peppino De Filippo protagonisti. Lo spettacolo, poi, si ridusse a qualche lettura fatta qua e là, mentre del film non si parlò più. Ed ecco che, mentre Carmelo rimane nella capitale ad insistere con i suoi raffinati duelli contro il Testo, de Berardinis e la Peragallo, chiamandosi ormai soltanto (e per sempre) Leo e Perla, abbandonano Roma e se ne vanno a Marigliano.
Qui affrontano l’avventura di uscire dal «teatro dell’errore» per entrare nel «teatro dell’ignoranza». Affrontano, cioè, il tentativo di far reagire in violenta combustione la loro cultura «alta» con quella «bassa» delle tradizioni indigene, a cominciare, ovviamente, dalla sceneggiata. E nascono le splendide prove di «’O zappatore», «King Lacreme Lear Napulitane» e «Sudd». In questo, allora, consisteva l’azione di Leo: nel riscoprire e nel rivalutare pratiche di spettacolo in via d’estinzione e, nello stesso tempo, ormai cristallizzate nella routine di un consumismo evasivo.
Ma conviene, per rendere chiaro il senso più profondo dell’operazione, fermarsi su uno dei sottoproletari che vi parteciparono, Sebastiano Devastato. Dopo la fine del «Teatro di Marigliano», lui e i suoi compagni (Nunzio Spiezia, l’unico ancora vivo, e Luigi Finizio, cantante di matrimoni) rimasero soli e abbandonati. Leo e Perla se n’erano tornati a Roma, e – mi disse Leo – «certo non me li potevo tirare dietro, un po’ per ragioni economiche e un po’ perché, trattandosi di personaggi particolari, me ne sarei dovuto accollare la responsabilità anche sul piano psicologico e dei rapporti con gli altri». Infatti, valga, per capire il discorso di Leo, quanto succedeva nello spettacolo, «Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto», con cui nel ’76 s’era conclusa, giusto, la gloriosa esperienza del «Teatro di Marigliano».
Vi si narrava, in sintesi, di un alieno del 7000 che viene spedito da un’imprecisata galassia a compiere una missione nel nostro tempo e sul nostro pianeta: deve scoprire il motivo per cui gli uomini si sono sterminati fra loro e individuare la persona che darà origine alla Grande Svolta. Sicché ingoia la pillola che lo rende padrone della lingua terrestre e sbarca in questa valle di lacrime.
Le coordinate spazio-temporali fornite dal computer galattico lo fanno arrivare in un cimitero in cui gli unici fiori sbocciati sono una caterva di gladioli e ortensie di plastica; e quando lui, servendosi di un raggio speciale, risuscita un gruppo di morti, dalle tombe si levano degli autentici mostri, che prima s’impegnano, manco a dirlo, in una loro privata, caotica e interminabile sceneggiata e poi finiscono, di nuovo, per uccidersi a vicenda e, visto che ci si trovano, per uccidere anche lo sconosciuto piombato giù dalle stelle. Le coordinate spazio-temporali erano sbagliate. Nessuna Grande Svolta può verificarsi in quel mondo di morte e di fiori di plastica.

Leo de Berardinis in un altro momento  di «'O zappatore »

Leo de Berardinis
in un altro momento
di «’O zappatore »

Ebbene, nel corso dello spettacolo quei morti-vivi – sotto la direzione dell’alieno Leo, giacca di lamé da perfetto entertainer e bottiglia di whisky nella destra, a tracannare un sorso ogni due minuti – dovevano, fra l’altro, addormentarsi e riprodurre con il loro ronfare, emettendo suoni vari e partendo chi prima e chi dopo, lo sciabordìo del mare. Ma, naturalmente, nessuno dei «mostri» seguiva le indicazioni del «direttore» o era capace di andare a tempo con i compagni. E allora scoppiava un continuo e sempre più violento alterco, con Leo che li insultava e li prendeva a schiaffoni e quelli che, talvolta, non riuscivano a sopportare e restituivano, senza pensarci su, tanto le maleparole quanto le mazzate. E il più tremendo era proprio Sebastiano Devastato.
Non a caso, di conseguenza, pensammo subito a lui quando, allo Spazio Libero di Vittorio Lucariello, organizzammo nell’82 – riprendendo il discorso avviato con «Città Sahara» durante il Carnevale di Venezia dedicato a Napoli – la rassegna intitolata, come volevasi dimostrare, «Barbari vecchi e nuovi». Ed eccoci al dunque.
È l’una di lunedì 19 aprile. Al termine di un’intervista con Peppe Capasso sul suo spettacolo che verrà presentato stasera nell’ambito di quella rassegna, mi ritrovo a Marigliano – da dove ero andato via bambino – dopo la bellezza di trentanove anni. E chi incontro nella piazza deserta del paese? Immobile davanti alla Pretura, giacca gessata e pantaloni blu, non potevo incontrare che lui, Sebastiano Devastato.
Subito, allora, il teatro comincia a confondersi con la vita. Sebastiano, la mente e il corpo devastati come il suo cognome in una tragica epifania del fato greco, non riesce a dormire. E poi, è insieme eccitato e preoccupato per lo spettacolo, appunto quello di Capasso, a cui deve partecipare: intanto, i proprietari dei ristoranti della zona, nei quali lui fa il cameriere, non vogliono mai dargli il permesso di assentarsi nei giorni delle recite; e per giunta, Sebastiano, di questo spettacolo che deve andare a fare a Napoli, non sa (e, giustamente, non si preoccupa di sapere) assolutamente nulla. Solo che tutti, nel paese, vengono continuamente a chiedergliene notizie. Stamattina, per esempio, è venuta «Maria ‘a pazza». E Sebastiano gira il problema al suo autore e regista: «Peppi’, io che debbo rispondere? E perché non hai messo ancora i manifesti sui muri? E dici che domani mattina dobbiamo fare le prove di memoria. Alle otto, dici. Ma è l’una passata e, mentre accompagniamo Enrico a Castellammare, si faranno almeno le due. E io debbo dormire almeno otto ore. Facciamo alle undici o a mezzogiorno, Peppi’. E mi raccomando, fa’ che non ti fai vedere?».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

                                                                                                                                          ( 1 – continua )

(«Corriere del Mezzogiorno», 14/8/2018)

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2 risposte a L’epopea di Marigliano, fra risate e «chianto»

  1. Matteo Cosenza scrive:

    Segnalo questi articoli di Enrico Fiore su Leo de Berardinis, in corso di pubblicazione da parte del “Corriere del Mezzogiorno”, a chi ama il teatro, la bella scrittura e la cultura, ma anche a chi solo vuol conoscere un altro tassello della ricchezza creativa della nostra terra, della Campania, del Sud.
    Non ho io gli strumenti per dire della straordinaria grandezza di Leo, ma ho gli anni e l’esperienza per ribadire, se ce ne fosse bisogno, la funzione che Enrico ha avuto, e ha, nella ricognizione, valutazione, valorizzazione e narrazione del nostro teatro. Sono di parte, confesso, perché veniamo dalla stessa città, la nostra amata Castellammare, e anche perché con lui facemmo giornali e cultura in quella città, spesso lavorando fino a notte fonda a casa mia, alimentati da qualche pressatella migliorata a cotoletta da mia moglie Anna, e poi abbiamo lavorato insieme a “Paese Sera” e infine ci siamo ritrovati per lunghi anni al “Mattino”. Ma è a “Paese Sera” che Enrico svolse un ruolo direi maieutico.
    Erano anni ricchi, quelli, di difficoltà, di fermenti, di speranze e, come sempre, toccò una parte non irrilevante di questo clima al teatro e ai suoi protagonisti. Enrico li raccoglieva uno per uno al terzo piano di piazzetta Matilde Serao e li promuoveva non blandendoli ma criticandoli, nel senso di svolgere fino in fondo il suo mestiere di critico.
    In redazione la processione era quotidiana. Martone, Neiwiller, Mario e Maria Luisa Santella, Servillo, Moscato, Troisi, Peppe e Concetta Barra, Carpentieri, Lello Arena, Enzo Decaro, Mastelloni, Italo Celoro, Angela Luce, Achille Millo, Nello Mascia, Carpentieri, Nino Taranto, Luca De Filippo… mi fermo perché dovrei elencare tutti, e sottolineo tutti, i registi e attori, sperimentatori e tradizionali, ma anche cantanti come Sergio Bruni, che hanno calcato le tavole dei teatri napoletani. Nessuno dei giovani che sperimentavano mancava all’appello, ma anche gli affermati, i più anziani, venivano non solo per salutarlo ma per consigli, critiche, suggerimenti. Né erano rari i blitz in altri mondi, presidiati da Lucio Seneca e Luciano Giannini, come la musica, per esempio di Pino Daniele.
    La sera dello storico concerto di Pino Daniele a piazza Plebiscito seguimmo dai balconi della redazione, che affacciava sul San Carlo, la fiumana di gente che riempì la piazza come neanche per Togliatti. Quando ci rendemmo conto che stava accadendo qualcosa di memorabile, Enrico volle scendere giù e immergersi in quel popolo. Risalì in redazione sudato come appena uscito da una doccia e scrisse un articolo straordinario sul corpo, sui corpi, raccontando il calore erotico e perfino animalesco di quel contatto fisico, e fece lui il teatro alla grande: d’altro canto la sua dedizione è stata totale, come dimostrò calcando la scena con una sua opera in cui si mise a nudo. Fu, Enrico, un’istituzione del nostro giornale, al punto che i grandi del teatro nazionale e mondiale che calavano a Napoli non potevano sottrarsi al rito di una visita. Qualche volta si sentivano anche le urla di Mostri Sacri che si erano sentiti offesi da una stroncatura, anche perché quando Enrico, per motivi non faziosi, intingeva come sapeva far lui la penna nel veleno, erano dolori per i malcapitati.
    Ecco, in questo teatro nel teatro Leo de Berardinis, campano di Gioi, ebbe un posto di rilievo. Mi è venuta in mente una serata di quegli anni lontani. Accompagnai Enrico al Teatro Nuovo per uno spettacolo di Leo. Mi piacque molto. Al ritorno a Castellammare in macchina discutemmo anche animatamente. Io, con le sole armi dello spettatore, sostenevo che de Berardinis aveva il limite di non portare all’estremo la sua permanente provocazione, un unicum tra la vita e la rappresentazione teatrale, Enrico, che poteva parlarmi ex cathedra, non era d’accordo e mi contestava. Finimmo tardi perché rimasi sotto casa sua a via Nocera per un buon quarto d’ora ancora a discutere con il motore dell’auto acceso.
    Ora si può capire quali sentimenti ha provocato in me la pubblicazione di queste puntate – un libro alla fine – su Leo. Che seguono altre Incursioni Alte di Enrico in quel mondo nel quale si muoveva, e si muove, come a casa sua e che ebbe il merito di sostenere e spesso di promuovere per il Teatro, per la Cultura, per Napoli. Credo che Enzo d’Errico, che visse con noi quegli anni, stia facendo un’azione meritoria con il “Corriere del Mezzogiorno”. Da collega so quale coraggio ci vuole a decidere di pubblicare cinque pagine a puntate, uno spazio spropositato per un quotidiano, ma sta facendo bene perché sta rimettendo in gioco la memoria della nostra migliore storia passata, i cui semi possono ancora produrre linfa vitale per il nostro angusto e dolente vivere i tempi attuali.
    Matteo Cosenza

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie, carissimo Matteo. Non solo, ovviamente, per gli attestati di stima che hai la bontà di riservarmi, ma anche, e soprattutto, perché, con queste parole, opportunamente rievochi, sia pure in piccola parte, un mondo ch’era assai migliore di quello – in massima parte incolto e volgare – che ci tocca oggi. Leo de Berardinis fu un emblema purissimo della stagione da te ricordata. E “Paese Sera” ne fu, non solo per quanto riguarda il teatro, una delle voci giornalistiche più sincere e appassionate. Così come ne fu un’emanazione, per quanto periferica, la “koinè” che si costituì fra noi a Castellammare.
    Adesso quella “koinè” si ritrova, perché entrambi, io e te, abbiamo preso a collaborare al “Corriere del Mezzogiorno”. E sono perfettamente d’accordo con te nel dar merito a Enzo d’Errico per il coraggio (ma anche, aggiungerei, per la lungimiranza) che manifesta nel pubblicare gli articoli in questione. Si tratta, senz’alcun dubbio, di un atto di fede nella possibilità che Napoli recuperi, prima o poi, almeno qualche frammento del suo passato glorioso. Come definire, altrimenti, la scelta di pubblicare ben cinque pagine su Leo de Berardinis mentre gli altri giornali, nell’imperversare dell’afa, si ubriacano di deretani e tette in libertà?
    Ti abbraccio.
    Enrico Fiore

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