Teatro come scuola, da Napoli alla Biennale di Venezia

Da sinistra, Mariano Pirrello e Christian La Rosa in un momento di «Spettri», la riscrittura di Leonardo Lidi presentata alla Biennale (la foto è di Andrea Avezzù)

Da sinistra, Mariano Pirrello e Christian La Rosa in «Spettri», la riscrittura di Leonardo Lidi presentata alla Biennale
(la foto è di Andrea Avezzù)

NAPOLI – Riporto il commento, pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», circa la differenza esistente fra il College varato dalla Biennale Teatro e la scuola del Teatro Stabile di Napoli.

«Si ha la sensazione che una certa approssimazione, una buona dose di volgarità e un’isteria da imprenditoria primitiva stiano agitando le viscere della città».
Tanto, fra l’altro, ha scritto Eduardo Cicelyn nell’editoriale pubblicato da questo giornale il 18 luglio scorso. E la considerazione è perfettamente riferibile anche alla situazione teatrale, non escluso, s’intende, lo scialo dei due Festival che si sono sovrapposti, il «Pompeii Theatrum Mundi» di De Fusco e l’insieme ipertrofico e inconcludente Napoli Teatro Festival Italia di Cappuccio. Siamo al supermercato del teatro.
Ma lo ripeto: ogni giudizio di valore implica un termine di paragone. E stavolta il paragone lo faccio con il Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale di Venezia e diretto da quell’Antonio Latella che – non dimentichiamolo, perché si tratta di una delle vicende più vergognose della storia teatrale di Napoli – fu costretto a scappar via meno di un anno dopo che aveva accettato di venire a dirigere il Nuovo.

Antonio Latella, direttore della Biennale Teatro (la foto è di Andrea Avezzù)

Antonio Latella, direttore della Biennale Teatro
(la foto è di Andrea Avezzù)

Mi soffermo, in particolare, sulla riscrittura di «Spettri» di Ibsen da parte di Leonardo Lidi. Per dire, innanzitutto, che assai raramente ci s’imbatte nel rifacimento di un «classico» che sia, come in questo caso, estremamente innovativo e, nello stesso tempo, fedelissimo nei confronti dell’opera rifatta, di cui, anzi, mette a fuoco le ragioni e i significati profondi sinanche al di là della scrittura dell’autore in sé.
Pensate solo che Lidi elimina il personaggio di Helene Alving, la madre di Osvald, con la conseguenza che quest’ultimo non può più pronunciare la celeberrima battuta «Mamma, dammi il sole». Si poteva rendere meglio il tema centrale dell’intero teatro di Ibsen: l’accamparsi, al posto della vita vera, di un presente che – per riprendere ancora una volta la decisiva osservazione di Szondi – «si limita ad essere un pretesto per l’evocazione del passato», mentre il futuro resta affidato all’improbabile ipotesi del «meraviglioso», e di un «miracolo» in cui, peraltro, non si crede più?

Ruggero Cappuccio

Ruggero Cappuccio

Leonardo Lidi, piacentino, ha appena ventinove anni e con questa riscrittura di «Spettri» ha vinto l’anno scorso il bando per registi under 30 promosso dalla Biennale College – Teatro (123 partecipanti, 30 ammessi alla seconda fase e 6 finalisti). Ma davvero non è arrivato a simili risultati perché, come si dice a Napoli, «è nato imparato».
Per cominciare, fu nel 2016, a Modena, tra gl’interpreti di «Santa Estasi – Atridi: otto ritratti di famiglia», il monumentale progetto ideato e varato per Emilia Romagna Teatro proprio da Antonio Latella. Attraverso provini a cui parteciparono 535 (cinquecentotrentacinque) candidati, furono scelti sedici attori e sette drammaturghi, i quali ultimi si fecero carico ciascuno dell’adattamento di una delle tragedie che giusto all’orrenda saga iniziata da Atreo si riferiscono.
Poi, l’anno scorso, ritrovai Lidi, sempre a Modena, nei panni di un Raskol’nikov trasformato in un immigrato africano da Konstantin Bogomolov, il quarantaduenne regista che è uno dei protagonisti della scena russa di oggi e un ospite particolarmente richiesto nei più importanti teatri e festival europei. E adesso eccolo qui. La Biennale gli ha dato 110 mila euro e gli ha detto fai tu. E Latella lo osservava soltanto, mentre lui dirigeva le prove del suo «Spettri» alla Giudecca, nell’ex convento benedettino dedicato ai santi Cosma e Damiano. Non è mai intervenuto, né con imposizioni né con semplici osservazioni.
Infatti, così Latella ha spiegato lo scopo fondamentale del College, fortemente voluto dal presidente della Biennale Paolo Baratta: «È dare a un regista giovane la possibilità di essere interamente se stesso, di lasciarlo seguire il proprio progetto senza vincolarlo alle aspettative sul futuro dello spettacolo». Ed ha precisato: «Parliamo di un progetto la cui mission non è vendere un prodotto, ma fare scouting: mettere, appunto, un giovane regista nelle condizioni di trovare una sua “lingua”, di scrivere l’inizio di una sua grammatica».

Luca De Fusco

Luca De Fusco

Ora, facciamo – ciò ch’è il tema di questo articolo – il paragone con quanto succede (o, meglio, non succede) a Napoli. La scuola del nostro Teatro Stabile, che peraltro (ricordiamolo) non ha ancora una sede, si limita a far comparire qualcuno dei suoi allievi in qualcuno degli spettacoli di sua produzione o coproduzione, e in veste di semplice comparsa. E al termine del primo triennio di corso li ha fatti esibire, quegli allievi, in «Shakespeare & Shakespeare», uno spettacolo antologico, ospitato anche nel Napoli Teatro Festival Italia di Cappuccio, su drammaturgia e per la regia di Lorenzo Salveti: che, per carità, è persona stimabilissima, ma per gran parte della vita ha fatto il docente, se non altro in quanto, a lungo, direttore dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica «Silvio D’Amico».
Voglio dire che, così, la scuola resta prigioniera della logica della scuola, mentre, al contrario, dovrebbe – una volta che i suoi allievi hanno completato gli studi – uscir fuori da se stessa, lasciando che quegli allievi camminino con le proprie gambe e affrontando tutti i rischi del caso: perché è questo il solo modo di crescere e d’imparare, al di là del puro nozionismo. La scuola, insomma, dev’essere un’incubatrice, non la catena di montaggio per la produzione di stampi.
Anche per questo, fra l’altro, risultano discutibili le affermazioni fatte da De Fusco e Cappuccio circa la crescita, a loro dire vertiginosa (e che per entrambi, guarda la combinazione, s’attesta sull’80 per cento), del numero di giovani presenti ai loro spettacoli festivalieri. Come si spiega che, poi, di quei giovani tanto numerosi d’estate si perdano quasi completamente le tracce durante la stagione invernale? C’è il sospetto che si tratti di affermazioni in odore di demagogia, ciò che, del resto, fa il paio con la certezza di non aver visto eserciti di vegliardi al minimo di pensione arrancare lungo l’erta di via Gennaro Serra per andare al Politeama a vedere gli spettacoli loro dispensati gratis da Cappuccio.
Il quale ultimo, serafico, ha per suo conto risposto alle critiche paragonando il Napoli Teatro Festival Italia da lui diretto alla macchina per il volo di Leonardo da Vinci e, di conseguenza, se stesso a Leonardo. Abbiate fiducia, dunque. Vedrete che l’anno prossimo Ruggero Cappuccio paragonerà il suo Napoli Teatro Festival Italia a «l’alta luce che da sé è vera» (Paradiso, XXXIII, 54) e se stesso direttamente al Padreterno.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 31/7/2018)

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