Piccoli poliziotti crescono. E finiscono a giocare a volano

Un momento di «Uni * Form»: al centro, da sinistra, Simone Aughterlony e Jen Rosenblit (le foto che illustrano l'articolo sono di Andrea Avezzù)

Un momento di «Uni * Form»: al centro, da sinistra, Simone Aughterlony e Jen Rosenblit
(le foto che illustrano l’articolo sono di Andrea Avezzù)

VENEZIA – S’è fatta subito perdonare, Simone Aughterlony, del brutto tiro che ci ha giocato presentando – come secondo momento della «personale» che le ha dedicato il quarantaseiesimo Festival Internazionale del Teatro, promosso dalla Biennale e diretto da Antonio Latella – l’inaccettabile pochezza di «Biofiction». Ha chiuso quella «personale» con uno spettacolo, «Uni * Form», da lei firmato insieme con Jorge León, che resterà fra le cose più belle e convincenti della rassegna.
Lo si capisce appena si entra in sala. Si sta scatenando – al centro del «quadrato» (metto il termine fra virgolette perché qui si allude a un vero e proprio ring) sui cui lati è disposto il pubblico – un’allegrissima sarabanda di bambine e bambini vestiti da poliziotti e debitamente dotati di pistole-giocattolo e manganelli in miniatura. Ed è l’anticipazione, in chiave di gioco innocente, di quanto si svilupperà in seguito: sempre in allegria, e sinanche con risvolti apertamente comici, ma in una dimensione assai meno «infantile».
Arrivano i poliziotti «veri» e cominciano a girare in tondo fissando sospettosi gli spettatori. Ma ecco che dalla postazione da dj occupata da Hahn Rowe, che esegue le sue musiche vestito anche lui da poliziotto, cominciano ad arrivare – amplificati da un microfono ad alta sensibilità – i suoni minimi di un semplice spuntino, il rumore prodotto dallo svitare il tappo di una bottiglietta d’acqua minerale o quello derivante dal togliere la copertura a un vasetto di yogurt. È l’immediata ed eclatante esposizione del tema di fondo dello spettacolo: la considerazione della polizia come elemento ad un tempo quotidiano ed estraneo.
I poliziotti sono tra noi, perché come noi fanno parte di questa società, e contemporaneamente sono lontani da noi, perché contro di noi (in quanto individui liberamente pensanti) debbono assicurare il controllo di questa società. Infatti, la ronda in questione sfocia in un lunghissimo bacio sulla bocca fra la Aughterlony e Jen Rosenblit: stante la compresenza – nell’occasione assunta simbolicamente – della naturale pulsione sessuale e del determinarsi di quella pulsione nell’ambito della «diversità».

Un altro momento di «Uni * Form», che ha chiuso la «personale» della neozelandese Simone Aughterlony

Un altro momento di «Uni * Form», che ha chiuso la «personale» della neozelandese Simone Aughterlony

Si potrebbe parlare, in termini più comuni, dell’amore che si ribella alle norme che vorrebbero ingabbiarlo in pratiche codificate. E non a caso, poi, quel bacio innesca, per contrasto, una sequenza d’ordinaria repressione: perquisizioni, materassi rivoltati, violenze gratuite sugli arrestati. Con la conseguenza che a poco a poco – tra movimenti convulsi, rotolamenti a terra, corse improvvise, tuffi parossistici su quei materassi e stazionamenti su un enorme copertone che a sua volta simboleggia la proverbiale ciambella di salvataggio – prendono il sopravvento prima la nevrosi e poi l’angoscia, un’angoscia tanto più tormentosa in quanto tramata, per l’appunto, d’immemori divagazioni giocose.
Quei poliziotti diventano ben presto un mucchio di corpi indifferenziati sia rispetto al sesso che all’età, poiché, naturalmente, il potere è uguale solo a se stesso. E le donne tendono a spogliarsi, poiché, altrettanto naturalmente, rappresentano per antonomasia la sottomissione al potere maschilista. Finché si arriva alla sequenza che mi sembra decisiva: quella di un poliziotto morto che, dotato da un suo collega dello scudo di plastica antisommossa e del manganello d’ordinanza, si risveglia e li getta via, ricominciando la ronda insieme con gli altri ma essendo completamente nudo.
Se non capisco male, siamo di fronte al sogno di una palingenesi, della riconquista di uno statuto umano al di là del pur inevitabile ossequio al proprio ruolo istituzionale. E l’effetto esilarante e straniante di quell’unico poliziotto nudo in mezzo agli altri regolarmente in divisa – di qui il titolo «Uni * Form», la dissonanza rispetto all’uniforme, nel doppio senso di omogeneo e, appunto, di divisa – costituisce la sigla perfetta dello spettacolo, insieme divertente e inquietante.
Non spreco parole, infine, sull’efficacia della prova fornita dai performer in campo. Accanto alla Aughterlony, alla Rosenblit e a Rowe, vanno citati proprio tutti: Davis Freeman, Nada Gambier, Kiriakos Hadjiioannou e Gary Wilmes. Finisce con una svagatissima partita che mischia il volano col baseball. Mentre Simone Aughterlony rispunta dopo mille misteriosi contorcimenti dal telo che ricopre il pavimento e sotto cui s’era infilata. Torna, così, la straordinaria tecnica dell’«emballage» portata all’acme da Kantor: il nascondere per esaltare. Ed è, s’intende, un altro accenno significante al sogno di rinascita di cui sopra.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *