Spaccalegna lesbiche con chitarra elettrica al seguito

Simone Aughterlony in un momento di «Biofiction» (foto di Jorge León)

Simone Aughterlony in un momento di «Biofiction» (foto di Jorge León)

VENEZIA – Lo rilevai già l’anno scorso. La scelta fatta da Antonio Latella – quella di dedicare una «personale» ai principali fra gli artisti invitati al Festival Internazionale del Teatro, promosso dalla Biennale e da lui diretto – è certamente una scelta fondata e produttiva: perché consente di verificare il percorso compiuto dagli artisti in questione e, così, di comprendere meglio il loro lavoro. Ma è anche una scelta rischiosa: giacché, per dirla in tutta franchezza, sconta l’eventualità che nel pacchetto di opere offerto da taluno di quegli artisti si nasconda, mi si passi il gioco di parole, ciò che a Napoli chiamano «pacco».
L’anno scorso successe con la estone Ene-Liis Semper, che all’eccellente spettacolo «NO43 Filth» ne fece seguire un altro, «NO42 El Dorado: the clowns’ raid of destruction», tanto presuntuoso quanto inconcludente, al punto che ci voleva una fatica immane per credere che fosse stato realizzato dalla stessa persona che aveva realizzato quello precedente; ed è successo, ora, con la neozelandese Simone Aughterlony, che – dopo il complesso «Everything fits in the room», un allestimento da lei firmato insieme con Jen Rosenblit e connotato da una polisemanticità che sfiorava persino l’antropologia culturale – ha presentato, firmandola insieme con Hahn Rowe, una performance, «Biofiction», assolutamente insignificante oltre che fastidiosamente pretestuosa.
Nel catalogo del Festival, la stessa Aughterlony dichiara, fra l’altro, che «Biofiction» si pone «come pratica che sfida le convenzioni o le etichette», essendo un’«opera coreografica» riferita a «un mondo in continua ridefinizione». Poi riflette: «Si tratta di ricerca sul movimento, di musica o di una divertente pratica post-porno?». E infine conclude: «Al di là delle classificazioni, la pièce mette in connessione corpi e materiali che possano accompagnarli, al fine di non riconoscere più la differenza tra essere eccitati, essere eccitanti ed essere co-eccitati».
Ma sono le proverbiali chiacchiere in libertà. A conti fatti, per settantacinque minuti «Biofiction» mostra, in sintesi, quanto segue: all’inizio e alla fine Simone Aughterlony e ancora Jen Rosenblit si danno a spaccare con l’accetta ceppi che poi vanno ad ammucchiare in due angoli opposti del proscenio; e fra quell’inizio e quella fine le nostre performers, per la maggior parte del tempo completamente nude, non fanno altro che masturbarsi o attorcigliarsi in amplessi, toccando l’acme quando la Aughterlony si caccia fra le natiche il manico dell’accetta e la Rosenblit utilizza per fingere di penetrare l’altra un pezzo di legno che ha la forma di un pene.
In pratica, non succede nient’altro. E la (chiamiamola così) «colonna sonora» eseguita dal vivo da Rowe non riesce neppure – fra distorsioni di chitarra elettrica e rumori gestiti da un computer – ad attingere il montaggio asincrono del cinema, si limita a ricalcare pedissequamente, sul piano acustico, quanto si svolge sul piano visivo. Tutto qui, mi pare proprio che non ci sia altro da aggiungere. Se questo spettacolo voleva essere provocatorio, riesce soltanto ad essere noioso.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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