Se Aylan finisce dentro il cestello di una lavatrice

Domenico Riso in un momento di «Oblò» (la foto è di Luna Cesari)

Domenico Riso in un momento di «Oblò» (la foto è di Luna Cesari)

VENEZIA – Io – che, come commissario di bordo sull’«Achille Lauro», ho fatto le rotte transoceaniche per l’Australia e la Nuova Zelanda – la conosco bene la strana sensazione che si prova guardando attraverso un oblò: sei immobile, e resti sempre uguale a te stesso, mentre ti trovi immerso in un elemento misterioso, il mare, che non sta mai fermo e, quindi, muta continuamente.
Anche Domenico Riso – il performer protagonista di «Oblò», lo spettacolo di Giuseppe Stellato presentato dalla compagnia Stabilemobile nell’ambito del quarantaseiesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale – sta immobile davanti, per l’appunto, a un oblò. Solo che è quello di una lavatrice. E ci mostra appena il movimento del cestello con dentro i panni da pulire: ci mostra, cioè, unicamente un movimento funzionale a un bisogno minimo e privato.
Ma ecco che, a mano a mano, Franco Visioli, curatore della colonna sonora, fa uscire dalla lavatrice, insieme con i rumori familiari della macchina, voci e risate di bambini, rombi minacciosi d’aerei da combattimento, conversazioni criptiche tra militari, ansiti di chi sta facendo l’amore: insomma, il suono di tutto il vastissimo mondo che circonda l’individualità distratta incarnata, come dicevo, dai nostri bisogni minimi e privati.
In breve, non ci mettiamo molto a capire la metafora: in quella lavatrice si sta pulendo (o, piuttosto, si sta cercando di ripulire) la nostra coscienza. Infatti, a un certo punto Domenico Riso abbandona la sua postazione davanti alla lavatrice, prende un barattolo di vernice rossa e con un pennello comincia a dipingere la striscia di plexiglas che delimita il proscenio. Si allude, evidentemente, alla striscia rossa di caricamento di un video. E si capisce che si allude, di conseguenza, ai video relativi alle tragedie del mondo che pigramente guardiamo e riguardiamo su computer e smartphone senza che in nulla ne vengano scalfite le paralizzanti certezze che dal mondo (e, giusto, dal suo perenne mutare) ci isolano.
Il performer, però, va avanti a dipingere di rosso la striscia di plexiglas che delimita il proscenio solo fino a un certo punto. Improvvisamente, la lavatrice esplode, portando allo scoperto l’intrico di tubi e di pezzi metallici che formano le sue «viscere» e la sua «anima». E anche qui la metafora risulta oltremodo trasparente. Ci sono tragedie di fronte alle quali non è possibile restare indifferenti: quando riesce a rimettere in funzione la lavatrice e a portare a termine il ciclo di lavaggio, Domenico Riso apre l’oblò e tira fuori dal cestello dei pantaloncini di jeans e una maglietta rossa, che depone lentamente in terra, come sulla riva del mare, lisciandoli assorto e stranito.
Ovviamente, il rimando è ad Aylan, il bambino siriano di tre anni che fuggiva dalla fame e trovò solo la morte. E il performer, dopo aver dato un’ultima carezza a quei pantaloncini e a quella maglietta privi del corpo che rivestivano, si allontana in silenzio, per non tornare più. Non ci sono applausi, ognuno rimane solo coi propri pensieri. E anche se dura appena mezz’ora, «Oblò» è lo spettacolo più bello che abbia finora visto a Venezia: perché è quello a più alta densità poetica ed emotiva.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *