Quelle felici scoperte fatte là dove non si stava cercando

Lorenzo De Angelis in un momento di «Médail Décor»

Lorenzo De Angelis in un momento di «Médail Décor»

VENEZIA – «Non abbiamo nulla da dichiarare, assolutamente, nulla di particolare, comunque». E ancora: «Abbiamo preso la decisione di parlare di quelli che ci circondano, di ciò che ci circonda». E infine: «Non abbiamo idee».
Sono tre delle battute iniziali di «Médail Décor», lo spettacolo che ha chiuso la «personale» dedicata a Vincent Thomasset dal quarantaseiesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale. E mi sembra che siano anche le tre battute-chiave del testo, scritto dallo stesso Thomasset: perché qui si fa più serrato, fino a diventare totalizzante, l’incontro/scontro fra la parola e il corpo che già avevamo riscontrato nei due spettacoli precedenti, «Lettres de non-motivation» ed «Ensemble Ensemble».
Infatti, in «Médail Décor» si affiancano la figura dell’autore/narratore e quella del performer, un ballerino che non solo incarna i personaggi evocati dal primo ma li sposta in una dimensione che non ha più nulla di definito e di classificabile, e giunge, invece, a identificarsi col tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, il tempo in cui – nell’alternarsi della presa di coscienza e del sogno – ogni cosa può diventare altro da sé.
Non a caso, del resto, Thomasset avverte che «Médail Décor» è il terzo e ultimo espisodio di una serie di spettacoli intitolata «Serendipity». La parola «Serendipity», coniata da Horace Walpole nel XVIII secolo, indica la fortuna di fare felici scoperte là dove non si stava cercando. E Thomasset la traduce in questo modo: «Serendipity, ovvero come puoi arrivare in un luogo prendendo una direzione che scopri quando vuoi andare da un’altra parte».
Ecco, allora, che si comincia con Dieter che gratta del formaggio in cucina e con Daniela che siede su un tappeto fra il televisore e il divano per approdare a una casetta in fondo a un bosco, «abitata» da oggetti che «si sottraevano sotto i nostri occhi». E capiamo che, in fondo, il gioco fra l’autore/narratore e il performer ricalca pari pari quel che – come dice Thomasset – gli accade quando rilegge ciò che ha scritto: «il problema della rilettura era il raddoppio, raddoppiavo le cose. Moltiplicandosi, allo stesso tempo le cose raddoppiavano, ma, in più, si sdoppiavano».
In altri termini, è lo scarto che inevitabilmente si determina fra una cosa quale viene creata nel momento in cui si scrive la parola che la fa esistere e l’immagine di quella cosa che nasce nel momento in cui si legge o si ascolta la parola che l’ha estratta dal nulla e dal silenzio. Lo riafferma la battuta, estremamente significativa, che arriva verso fine dello spettacolo: «Voglio avere quello che voglio. Subito. La parte più difficile è riuscire a non considerare lo spazio che separa il momento in cui penso dal momento in cui avrò quello che voglio. […] Non è tanto pensare al momento in cui avrò finalmente quello che voglio, perché non so cosa avrò, è piuttosto pensare al momento in cui sarò in possesso degli oggetti che faranno in modo che non vorrò separarmene, con cui vorrò giocare sempre».
«In realtà, ho un problema con il fatto che il tempo non corrisponde a niente». Così Thomasset riassume i temi di questo suo spettacolo insieme complesso e semplice, difficile e affascinante. E infatti, «Médail Décor» è un ininterrotto andare avanti e indietro. Al flusso di parole scaricato da Thomasset a una velocità vertiginosa corrispondono prima un sonoro sbadiglio da parte del ballerino che interagisce con lui, Lorenzo De Angelis, e poi le voci della natura, a partire dal rumore del mare: corrispondono, cioè, gli abbandoni all’innocenza di una condizione che prescinde dalle spiegazioni.
De Angelis prende a correre in tondo e quindi a saltare oltre le cassette Lego disposte a formare ostacoli di varia lunghezza e altezza. È solo un gioco. Che, poi, finisce quando il ballerino va a sbattere violentemente contro le pile di quelle cassette, sparpagliandole in giro fino a sfiorare gli spettatori della prima fila. E a Thomasset non resta che afferrare una ramazza e ripulire il pavimento. Salvo tornare alla parola, stavolta leggendo dal suo copione addirittura un passo riguardante il rapporto fra Joyce e i nazisti.
Lo spettacolo finisce, naturalmente, quando anche Thomasset dà sfogo alla sua vena di performer: quando, in breve, la parola e il corpo trovano finalmente pace, perché si sciolgono l’una nell’altro.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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