Il mondo in una stanza, dai cicchetti alla donna cannone

Da sinistra, Simone Aughterlony e Jen Rosenblit in un momento di «Everything fits in the room» (la foto è di Ian Douglas)

Da sinistra, Simone Aughterlony e Jen Rosenblit in un momento di «Everything fits in the room»
(la foto è di Ian Douglas)

VENEZIA – «Lo straordinario si rivela sempre essere un’amplificazione di qualcosa che è presente nelle opere, un labile confine nel migliore dei casi, non un addio consumato sbattendo la porta». È la considerazione di Lauren Berlant che Simone Aughterlony pone in epigrafe a «Everything fits in the room», lo spettacolo, firmato da lei e da Jen Rosenblit, con cui la performer neozelandese ha aperto la «personale» che le ha dedicato il quarantaseiesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale.
Giusto nell’inverare di continuo quell’epigrafe consiste, infatti, lo svolgersi dell’allestimento, un allestimento singolarissimo che, in uno degl’immensi ambienti del Teatro alle Tese dell’Arsenale, ha travolto, tramortito, divertito e in qualche caso costretto alla fuga gli spettatori.
Non c’è più la famosa e famigerata quarta parete. Al suo posto c’è un muro collocato esattamente al centro dello spazio scenico. E quel muro funziona proprio come la siepe leopardiana: il pubblico entra e vaga a casaccio fra – poniamo -intrichi di tubi di neon multicolori, mucchi d’ossa di bue, forzuti da circo che giocano a liberarsi dalle catene, una donna cannone (la Rosenblit) che caccia la testa in un secchio, la Aughterlony che a seno e culo nudi va a sprofondare sugli aghi dei rami di pino pigiati in una tinozza; e naturalmente, a seconda che ci si venga a trovare da una parte o dall’altra del muro, si può solo immaginare («fingersi nel pensiero», per dirla, appunto, con Leopardi) quanto sta accadendo in quel momento di là da esso.
Non a caso, dunque, ho fatto riferimento al circo. L’ho fatto perché «Everything fits in the room» accosta, proprio come il circo, «numeri» slegati l’uno dall’altro e, perciò, significanti solo in sé e per sé. E d’altronde la frase inglese «everything fits in the room» può significare sia che tutto può stare in una stanza sia che tutto può adattarsi a una stanza. E lo capite, così torniamo sia all’epigrafe di cui sopra sia alla siepe leopardiana. Possiamo ridurre ogni cosa a una misura ordinaria, quella della nostra quotidianità, o moltiplicare le valenze e le potenzialità di ogni cosa sulle ali della fantasia, dell’ideologia o, semplicemente, di un bisogno ludico.
Mi limito, in proposito, a un solo esempio. La cucina presente nella stanza in questione si riduce a un banchetto da street food montato su ruote e che accoglie, insieme con computer vari e tastierine che rimandano un’assordante e seriale colonna sonora fatta anche di mugolìi e grida gutturali, una vasta scelta di cicchetti, i buonissimi crostini veneziani che poi verranno distribuiti agli spettatori o divorati dagli stessi performer in azione. E a gestire quel banchetto è un vichingo debitamente munito di grembiule e di lunga criniera bionda ma, anche lui, piazzato dietro i fornelli, i computer e le tastierine col culo nudo.
Ovviamente, il quadro concettuale è riferito all’arte nordica, perché, infatti, Simone Aughterlony, pur venendo dal Pacifico, oggi è di stanza in Svizzera e in Germania. Ma ecco che, poi, in «Everything fits in the room» si verifica un piccolo miracolo. A un certo punto, Simone, mediante un drappo nero, si lega all’avambraccio destro uno dei citati ossi di bue e con quello percuote a tratti il pavimento: e tanto rimanda alla «pastallessa» della casertana Portico, la musica fatta con le falci e in cui il ritmo, ossessivo fino a diventare orgiastico, viene scandito percuotendo le botti con un mazzuolo legato all’avambraccio destro con strisce di cuoio.
Quel mazzuolo, in tutta evidenza, è un simbolo fallico, mentre il movimento del braccio che dall’alto lo fa calare sulla botte costituisce l’esatto equivalente del movimento del braccio che dall’alto fa calare la falce sul grano. È così, per accompagnare e in qualche modo alleviare la fatica del mietitore, che nacque il tempo battuto in uno della tammurriata. E tanto basti, dunque, a dire della polisemanticità delle sequenze e dei gesti dispensati da «Everything fits in the room».
Ma c’è, infine, da sottolineare un altro rimando, ancora al Musil de «I turbamenti del giovane Törless». Parlo del passo che dice: «[…] tra la vita che si vive e la vita che si sente, che s’intuisce, che si vede di lontano, è una frontiera invisibile; la porta stretta in cui le immagini degli avvenimenti debbono infilarsi, per passare nell’uomo». Il muro di Simone Aughterlony e di Jen Rosenblit è proprio quella «frontiera invisibile». E siccome il passo di Musil in questione mi venne ricordato, l’anno scorso, ancora da «Le bruit des arbres qui tombent» di Nathalie Béasse, ecco che posso chiudere segnalando un’altra prova della coerenza che ispira la Biennale Teatro di Latella.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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