Il canto del corpo alla saggezza delle cose, contro le parole

Lorenzo De Angelis e Aina Alegre in un momento di «Ensemble Ensemble» (le foto che illustrano l'articolo sono di Andrea Avezzù)

Lorenzo De Angelis e Aina Alegre in un momento di «Ensemble Ensemble»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Andrea Avezzù)

VENEZIA – «Ensemble Ensemble» – il secondo spettacolo della «personale» che dedica a Vincent Thomasset il quarantaseiesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale – trasforma in realtà concreta quello che il primo degli spettacoli in questione, «Lettres de non-motivation», prospettava solo come ipotesi: l’identità o, almeno, la coabitazione delle due figure, l’attore e il performer, che sono quest’anno protagoniste della rassegna.
Non a caso, infatti, Thomasset è stavolta, oltre che regista, anche autore del testo. E ancora non a caso, il testo – che mette in scena i personaggi di Moi e Toi, una donna e un uomo – viene affidato a quattro interpreti tre dei quali hanno una formazione da danzatori.
Il tema è quello del doppio, nelle tre accezioni, indicate dallo stesso Thomasset, che dal concetto di doppio derivano: doppione, doppiaggio e sdoppiamento. Sicché quel che si dicono Moi e Toi procede nel solco della ripetizione, del dare voce all’altro da sé e dell’assumere, a tratti, il pensiero dell’interlocutore. E in breve, ciò che costituisce la sostanza drammaturgica e formale di «Ensemble Ensemble» sta nello scarto inesausto fra la realtà e il tentativo, perennemente vano, di spiegare la realtà con le parole.
Ecco, Toi rappresenta l’accettazione della realtà e Moi il tentativo di spiegarla (e magari sublimarla) con le parole. Tanto che Toi rinfaccia a Moi di raccontare «delle storie», aggiungendo: «[…] d’improvviso ti vedo, ti guardo… ti vedo… raccontare delle storie, ma… all’improvviso… vedo te… ma… vedo più di questo. Tu. Che racconti delle storie».
In altri termini, Toi considera Moi non in quanto entità reale e autonoma, insomma come una persona, ma solo in quanto proiezione di parole. E perciò non smette di richiamarla. Per esempio quando le obietta: «Tu dici “buon compleanno!”. La natura non ce l’ha il compleanno, non puoi dire “gnegnegne natura, un sacco di baci natura, buon compleanno natura!”. La natura non ha baci… non ha compleanno!».
Per questo – a Moi che s’attarda a parlare di certi diari che ha comprato, provenienti da una soffitta (quindi di qualcosa che appartiene al passato, del lascito, appunto, di «qualcuno che si racconta») – Toi ribatte: «Sai, non so se te ne sei accorta, ma spesso, quando mi parli, mi guardi ma è come se non mi vedessi». E precisa: «Mi guardi, ma non mi guardi». E conclude: «In pratica, sei qui, ma non sei qui».
Lui, invece, Toi, ha ben chiara la sua posizione nel mondo: «Vado avanti perché vado avanti, cammino perché cammino, mi siedo perché mi siedo». Perciò dice a Moi: «Se avessi trovato io i tuoi quaderni, li avrei bruciati». E quando Moi gli chiede: «Perché?», risponde: «Così. Vedi, quello che resta, in qualche modo: i mattoni nel muro, la ghiaia nel cortile, le tegole sul tetto, io penso, alla fine, in qualche modo, gli elementi circostanti, beh, in realtà, sei tu, tu e tu e non puoi farci molto, ed è così e allora ecco, capisci?». E quando Moi risponde a sua volta: «Ehm, no, non capisco», le spiega: «Quello che voglio dire è che preferisco quello che rimane a quello che se ne va».

Da sinistra, Lorenzo De Angelis, Aina Alegre, Anne Steffens e Julien Gallée-Ferré in un altro momento di «Ensemble Ensemble»

Da sinistra, De Angelis e la Alegre con Anne Steffens e Julien Gallée-Ferré in un’altra scena

Questo Toi, in definitiva, è un discendente del Musil che, ne «I turbamenti del giovane Törless», osservava: «Le cose, accadono; ecco tutta la saggezza». Gli si attaglierebbe, peraltro, ciò che il 18 giugno 1895 Hofmannsthal scrisse al guardiamarina E. K.: «Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipendente, come il mondo dei suoni». E tali citazioni mi servono anche per dire della coerenza preziosa che connota il lavoro di Antonio Latella in quanto direttore del Settore Teatro della Biennale. Poiché «Ensemble Ensemble» rimanda evidentemente e direttamente a «Le bruit des arbres qui tombent (Il rumore degli alberi che cadono)», lo spettacolo di Nathalie Béasse che vedemmo l’anno scorso: non sappiamo quali sono gli alberi che cadono, così come non sappiamo perché cadono.
Se non conquistiamo questa saggezza, sembra essere il messaggio dello spettacolo di Thomasset, finiremo per ridurci – è uno dei passi più emblematici del testo – a contare «quante lettere ci sono in quello che voglio dire». Sicché, ben a ragione, possiamo definire «Ensemble Ensemble» per l’appunto come il canto del corpo alla saggezza delle cose, contro la protervia delle parole. E assai precisa ed esplicativa è la strategia che al riguardo dispiega la regia di Thomasset.
Lunghe pause d’immobilità o di silenzio punteggiano, infatti, la prova delle due Moi e dei due Toi messi in campo. Perché, giusto, si tratta della strenua lotta fra le parole e il corpo: e se le parole debbono lottare per trovare spazio rispetto al prevalere dei corpi, a loro volta i corpi debbono lottare per contrastare l’invadenza delle parole. E non a caso, per tornare al mondo dei suoni chiamato in causa da Hofmannsthal, gli autori delle musiche originali di «Ensemble Ensemble», Benjamin Morando e Gabriel Urgell Reyes, ricalcano stilemi barocchi, in particolare quelli del Canone: qui, voglio dire, il testo e la regia di Thomasset offrono ai quattro interpreti lo stesso proliferare di variazioni che nel Canone di Pachelbel il basso ostinato offre ai violini.
In linea con un simile quadro concettale e formale risultano, infine, le performances di Aina Alegre, Lorenzo De Angelis, Julien Gallée-Ferré e Anne Steffens. I loro assoli, tanto per intenderci, approdano a una perfetta dimostrazione di stile. E lo stile è tutto. Per concludere con le citazioni di autori di lingua tedesca, ricordo in proposito un’osservazione di Hölderlin: «La parola è una grande superfluità. Il meglio ne rimane sempre escluso: riposa come perla sul fondo del mare». E solo grazie allo stile possiamo recuperare quella perla.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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